giovedì 27 dicembre 2012

Perché non resta altro da fare

Devo forse qualche spiegazione prima che ai tanti o pochi che hanno avuto modo di leggere il mio blog negli anni passati, a me stesso. E' più di un anno che questo Blog non vede un post. Motivo? E' stato questo un blog liberista, un blog su cui condividere in primis con gli amici di tocque-ville.it la battaglia e la speranza per un'Italia autenticamente liberale. Dall'esperienza di "Ideazione" in poi, a partire dalla metà degli anni '90 sono nate in Italia fondazioni, centri di cultura, think tank liberali e non solo, che sino all'anno scorso, hanno avuto la capacità di incidere sul panorama culturale, giornalistico ed anche politico italiano mettendo all'ordine del giorno la spinta per una svolta reaganiana in Italia dietro le istanze della parte produttiva del Paese. Sino ad allora non vi era mai stata la possibilità di divulgare le mille sfaccettature del pensiero liberale se non attraverso una lettura pelosa della filosofia crociana oppure attraverso l'etichetta dell'utopismo affibbiata dall'imperante accademismo marxista. I cittadini sono i veri proprietari della sovranità e la esercitano attraverso il voto. Il Governo da loro espresso non ha alcun titolo per incidere sui loro diritti naturali:Vita-Libertà-Proprietà. Una rivoluzione copernicana inopinatamente da molti - tra cui il sottoscritto - affidata a Forza Italia prima ed al PDL poi. Quanto fosse errato il calcolo politico è sotto gli occhi di chi vuol vedere. Altrettanto lo è quanto sia impossibile che anche un pregiato e capace tecnico come il Prof. Monti possa e voglia realizzare tale programma. Prendere atto di una sconfitta? Forse. Ma non solo. Giacché purtroppo per salvare dalla bancarotta il Paese non basta mettere un po' di benzina - come fatto con le tasse del Governo tecnico - non resta che aspettare. Che vinca la deriva post-sovietica di Bersanov o il tentativo di gestione del corrente del Nuovo Centrismo Montiano, la prospettiva a lungo termine, senza una riqualificazione draconiana dei capitoli di spesa da lasciare allo Stato, non può che essere il prosciugamento della ricchezza del Paese a favore degli investitori internazionali che finiranno per accaparrarsi le nostre aziende ed il nostro Know How e quindi l'ulteriore inasprimento fiscale attraverso la propaganda sull'evasione fiscale (remake post-stalinista della strategia del terrore utile a legittimare espropri collettivisti). Allora? Ayn Rand docet. Il buen ritiro. Magari in attesa di una primavera. Who's John Galt?

Non resta altro da fare

martedì 15 febbraio 2011

Illuminante

mercoledì 2 febbraio 2011

Re-branding mediterraneo per il marchio USA


Quando nei mesi scorsi la Segreteria di Stato è finita nell'occhio del ciclone mediatico globale per via dell'affaire Wikileaks e i file relativi a report, dossier, colloqui riservati di alti dirigenti preposti alla direzione della diplomazia statunitense hanno trovato posto tra le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, gli USA hanno ad alta voce richiesto la chiusura e sanzioni per il sito di Julian Assange, oltre che l'intervento immediato de l'interpol e l'estradizione del cittadino svedese.
Fatti alla mano, ora che il controverso hacker è nelle mani amiche di Scotland Yard non è difficile immaginare che, tra le seconde e terze file dell'Amministrazione Obama, la sola pronuncia del suo nome possa provocare sentimenti ben diversi.
E' noto come all'indomani della nomina a 44° Presidente degli Stati Uniti, riguardo alla politica internazionale del Paese a stelle e strisce, Barack Obama abbia posto quale stella polare della linea d'azione della sua Amministrazione quella che è stata definita la “politica della mano tesa”.
Mano tesa all'Iran atomico, mano tesa al mondo mussulmano sunnita e sciita anche estremista, richiesta di riforme ai governi autoritari del nord-africa, asprezza e ambiguità con Israele contro la politica di sicurezza e nuovi insediamenti del nuovo Governo Netanyhau, infine appoggio ad Abu Mazen nel tentativo di co-optare Hamas di nuovo all'interno dell'Autorità Palestinese.
Tutto ciò nella convinzione che l'odio viscerale del mondo arabo verso gli States, la terra della democrazia e della libertà, il terrorismo qaedista nascano da un gigantesco equivoco di cui responsabile sarebbe oltre che la destra e i successi militari israeliani anche il pugno duro dei governi sunniti del medio-oriente.
Soprassedendo sugli esiti della “politica della mano tesa” con riferimento al dossier iraniano, oggi che mentre scriviamo la sorte del Presidente egiziano Mubarak, difeso oramai solamente da Israele, scaricato da USA e triade UE (Germania-Francia-UK), appare segnata da un destino non dissimile a quanto di recente capitato al tunisino Ben Alì, oggi che questa protesta di popolo dall'identità anonima cui forzosamente si vuole affibbiare il marchio di protesta giovanile, incendia il nord-africa promettendo di fare altrettanto con il resto del medio-oriente sunnita, avendo per la prima volta – apparentemente - ad oggetto non il conflitto israeliano-palestinese o l'ingerenza statunitense, ma le sorti economiche e civili dei Paesi del medio-oriente allargato, il riposizionamento statunitense sembra essere sulla strada voluta dal Presidente.
Sulla stessa strada tracciata però dai file di wikileaks tanto censurati dal Segretario di Stato Hilary Clinton; e sì perché accanto ai principali eventi che in questi mesi stanno destabilizzando il mediterraneo tutto (ivi compresi i sexy scandali all'”americana” che paralizzano il nostro Paese) non è difficile vedere campeggiare sui principali quotidiani nazionali ed internazionali i file “oracolari” proprio di wikileaks, quasi che il tourbillion mediatico prodotto da Julian Assange abbia fornito agli States la possibilità di sparigliare le carte di una diplomazia finita in un “cul de sac” stretta com'era tra la morsa dei creditore cinese, la permeabilità europea alle lusinghe della Russia sovrana e l'impossibilità a portare ad un qualsiasi tavolo delle trattative israeliani e palestinesi.
Per il medio-oriente allargato quindi una visione democratica occidentale, una visione estratta dai migliori sogni di George W. Bush? El Baradei alla Gandhi? Qualche dubbio sorge.
I fratelli mussulmani confraternita estremista, principale partito di opposizione in Egitto sono espressamente, anche se in sordina, al fianco di El Baradei. Il Premio Nobel già a capo dell'AIEA, Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, che nel dossier iraniano è stato da più parti accusato di doppiogiochismo, nella sua corsa alla Presidenza egiziana iniziata nelle piazze de Il Cairo, non ha esitato ad accogliere dalla sua parte proprio gli estremisti islamici. I simpatizzanti del would-be President egiziano disegnano stelle di David sui ritratti di Mubarak rendendo alla loro piazza un immagine non distante dalle tante piazze anti-israeliane che affollano il medio-oriente, dov'è quindi la novità?.
Tutto ciò lascia presagire che se anche la cacciata di dittatori come Mubarak (e prima Ben Alì) avvenga o sia avvenuta con successo, i Paesi da essi liberati difficilmente potranno essere avocati ad un destino di stabilità e democrazia di stampo occidentale, vale la pena ricordare l'esito delle libere elezioni nei Territori Palestinesi: maggioranza assoluta ai fondamentalisti islamici filo iraniani di Hamas.
Ma tali preoccupazioni non sembrano prevalere all'interno dell'Amministrazione Obama, nella sua ansia di fiancheggiare la protesta anti-Mubarak, apparendo essa in politica estera effettivamente ispirata più che dalla realpolitik, dalla realizzazione di disegni affascinanti dal sicuro impatto mediatico benché dotati di una certa dose di astrazione, del resto un po' come la filosofia animatrice di siti come wikileaks.
Lo stesso Presidente americano si è espresso in favore del popolo egiziano in rivolta (e dell'espressione della sua volontà, sic), se questo schema venisse applicato in tutto il medio-oriente, non è escluso che il mondo tutto (Israele e l'Europa per prime) diverrebbe in breve un posto certamente meno sicuro: wikileaks o non wikileaks, non sarebbe la prima volta per gli americani, nella loro bella e proverbiale ingenuità, che con il fine di risolvere problemi finiscano per farli esplodere.

mercoledì 1 dicembre 2010

Quando saltano gli schemi


Quando saltano gli schemi http://htxt.it/wFc4
pubblicato su lapiazzaditalia.it il 1/12/2010

Julian Assange, controverso personaggio, australiano vecchia conoscenza delle autorità di Canberra che lo avevano incastrato per hackeraggio contro l’Università di Melbourne, svedese di adozione, uno dei famigerati “International Subversives”, gruppo di hacker ricercato per mezzo mondo, ovvero un delinquente informatico, è riuscito, attraverso al sua creatura wikileaks.org a dare scacco matto alla diplomazia di quella che una volta era considerata l’unica superpotenza rimasta nel pianeta.
Wikileaks.org avrebbe come sua mission quella di provocare una reale democrazia mediatica nel mondo svelando la verità sulla violazione dei diritti umani nel mondo, di fatto da che ha cominciato ad operare si è mossa univocamente in chiave anti-americana raccogliendo le spiate di reduci militari dalle azioni di peacekeeping provanti nel morale e nella fede civile e concentrandosi quindi sulla pubblicazione di segreti militari americani in Iraq e in Afghanistan, con annessi scandali come quando fu pubblicato il video dello sterminio da parte dei Marine di una troupe di giornalisti iracheni scambiati dalle telecamere militari per fazioni ostili in azione.
Attualmente Assange manda dispacci da una località imprecisata, la magistratura svedese ha spiccato un mandato di cattura per molestie e stupro (che Assange ha rispedito al mittente), l’Interpol ha istituito un mandato di arresto internazionale, anche la UE, in forza del trattato di Schengen, ha diramato una mandato di arresto internazionale.
Ma cos’ha combinato Assange?Grazie alla complicità di un non precisato funzionario della diplomazia statunitense ora è entrato in possesso delle password per il database informatico di tutta la diplomazia statunitense servizi segreti compresi e quindi – da par suo – ha craccato ovvero è riuscito ad agire sulle protezioni del programma che reggeva il database della diplomazia statunitense scaricandosi oltre due milioni e mezzo di file con informazioni riservate con l'obiettivo di metterle a disposizione del web (http://cablegate.wikileaks.org/) non prima di una azzeccatissima campagna promozionale mediatica.
La cable connection così come è stata denominata è il culmine di un lavoro – quello di Julian Assange – allorché grazie a wikileaks, di cui Assange si definisce l’editor in chief, con la pubblicazione di questi giorni anticipata da un furbo tam tam mediatico, si ottiene un obiettivo bern preciso: da domani gli ambasciatori americani di mezzo mondo e i loro funzionari plenipotenziari saranno guardati in cagnesco un po' da tutti.
Insomma ce n’è per tutti i gusti per mandare su tutte le furie non solo gli USA e per sparigliare le carte di un gioco geopolitico che dimostra essere tornato ai tempi del concerto delle nazioni, ad un tutti contro tutti sotterraneo giocato sulle spalle sopratutto di un Europa orfana di processi politici capaci di fare da contraltare alla crescente influenza politico-economica dell'est russo, cinese, indiano e del far est delle tigri asiatiche.
E già perché il contenuto di questa ultima attesissima tornata di file riservati, bisogna dirlo, delude le aspettative sotto il profilo della sostanza dei segreti smascherati ma mette alla berlina un po' tutti i leader europei nel momento in cui il debito sovrano della UE è sotto un pericolosissimo attacco speculativo che dimostra di non mirare più solo a Irlanda, Grecia o Portogallo ma mira direttamente a Spagna ed Italia con l'obiettivo evidente di riequilibrare manu militari (finanziariamente parlando s'intende) il rapporto euro/dollaro troppo sfavorevole per quest'ultimo con grave danno per il bilancio della FED sull'orlo del baratro del fallimento.
La CIA? Forse, gli 007, probabile. Nei dispacci diplomatici americani però, la Merkel è un leader senza creatività, Ahmadinejad è il nuovo Hitler, Chavez un pazzo, Gheddafi uno scostante eccentrico paranoico, Sarkozy un permaloso Ré nudo e Berlusconi…bè il giudizio su Berlusconi è quello di un leader vanitoso, dedito a festini selvaggi e portavoce di Putin, poi Putin, già Putin, un macho autoritario.
Pensare che la diplomazia statunitense possa essere ridotta ad una capacità di analisi della geopolitica del pianeta di tal fatta potrebbe spiegare purtroppo tante cose sui rovesci nella politica internazionale di cui gli Stati Uniti d’America si sono resi protagonisti, pensiamo all’appeasement in Sudamerica con il Venezuela di Chavez (un “pazzo” sì, da cui però il Presidente Obama in un incontro panamericano non ha lesinato la cortesia di ricevere in dono la bibbia del marxismo leninista sudamericano) o il maldestro tentativo di engagement diplomatico con la Repubblica degli Ayatollah.
Con buona pace delle speculazioni buone per la nostra povera politica interna o meglio per la nostra politica interna povera, una parte considerevole dei file e dei report pubblicati da wikileaks è piuttosto destinata alla crisi iraniana sul dossier nucleare. Le autorità israeliane nella disputa con l'alleato americano sui provvedimenti da prendere ne escono un po' come fratello il coscienzioso e avveduto di famiglia che cerca di far rendere conto che il corteggiamento - leggi la strategia dell'abbraccio diplomatico - al più riuscirà a dar tempo alla dama sdegnosa - ad Ahmadinejad - per completare il suo disegno ostile – il programma di armamento nucleare: Barak, già nel febbraio di quest'anno ammonisce gli USA, che la capacità tecnologica di sfruttare il nucleare a fini bellici sarà a disposizione di Teheran già tra il dicembre 2010 e il Gennaio 2011: una prospettiva che lo Stato israeliano non può accettare lasciando tutte le opzioni aperte sul tavolo, ivi compresa quella di un attacco aereo.
Assange ha reso un servizio alla democrazia mondiale? Con i file di wikileaks è nato un nuovo giornalismo? E' libertà di stampa? Giacché come noto la diplomazia è l'arte del non detto Assange ha solamente operato del killeraggio diplomatico su commissione (di qualcuno o più di uno), la democrazia qui non c'entra nulla e neanche la libertà di stampa.
Fa tristezza vedere tanti sperticati democratici ingrassare dell'ennesimo schiaffo al Governo italiano, quando il risultato di tutto questo è stato in un giorno solo quello di un aumento del 200% dello spread tra i titoli del tesoro italiano e quelli tedeschi con un asta per la prima volta andata non del tutto coperta che promette in caso di una crisi di Governo (oggi più che mai probabile) un debito pubblico italiano fuori controllo: cominciò così anche per la Grecia e l'Irlanda.

venerdì 19 novembre 2010

La Situazione è Grave, ma non è Seria



La situazione è Grave, ma non è Seria. Bisogna pensarla con Flaiano per riuscire a districarsi nella paralizzante crisi politica in cui si è rimasti attanagliati.
Un qualcosa che toglie la parola e lascia esterrefatti.
Roark ha pensato sul serio che il PDL da una parte e il PD dall'altra, con una legge elettorale che aveva lo stesso effetto di quella utilizzata negli States per le presidenziali, magari migliorata un domani con le primarie per legge oppure le preferenze in scheda, potesse portare nel lungo periodo ad un bipartitismo di cui il nostro Paese ha dannatamente bisogno per risolvere gli ultradecennali problemi strutturali che si ritrova. E invece no.
Attoniti si assiste al prevalere da una parte e dall'altra di una deriva di latifondismo politico che si attesta secondo modalità per cui non sono le leadership ad emergere dai partiti ma i partiti ad emergere dalle leadership, una prospettiva per cui tutti tranne due o tre si dichiarano contro il premio di maggioranza, in pratica per il ritorno del caos ante 1992, le pastette endemiche, l'ingovernabilità senza volto né responsabilità.
Di contro dopo quasi vent'anni di sacrifici e di economia asfittica è abbastanza chiaro che non basta portare ad oltre il 60% il peso del prelievo fiscale sulla popolazione per pagare il debito, esso è infatti oramai irredimibile, al più un altro governo di altro colore potrebbe in ragione di gravi inasprimenti fiscali riuscire solamente a riportare poco sopra il 100% il debito pubblico ma al prezzo di mandare in default l'economia reale.
La situazione è quindi Grave. Questo lo è da anni.
Ma non è Seria, perché una classe politica Seria, avrebbe da ANNI portato sul piatto un piano di ristrutturazione drastico e strategico del Debito Pubblico prima che in men che non si dica non siano il Fondo Monetario Internazionale o la Commissione Europea (sul modello irlandese) ad obbligarci a farlo e alle loro condizioni.
In questi anni ci si è però limitati a gestire l'esistente, ad accontentare tutti, a non dire la verità e cioé che in Italia non ci sono i soldi per gestire un sistema assistenziale come il nostro in un mondo in cui la concorrenza è spietata e i margini di impresa e Paesi sono ridotti a lumicino.
C'è da scegliere uno Stato cosa debba fare per i propri cittadini, lo Stato italiano non ha i soldi per fare tutto quello che fa oggi.
Ma come possono partiti e partitini di destra e sinistra che vivono delle prebende che elargiscono nelle istituzioni locali, negli enti, nelle società partecipate pubbliche, nei ministeri, nelle autorità, autoprivarsi proprio di ciò che da loro il potere di fottersene anche di referendum che inibisce loro la possibilità del finanaziamento pubblico cambiandogli semplicemente nome in "Rimborso elettorale", come possono rinunciare a ciò che chiamiamo il sistema del Welfare - tradotto Stato Assistenziale - in virtù del quale hanno generato una burocrazia senza nome che invece di sgrassare le differenze e le iniquità sociali lavora unicamente per ingrassare amici e amichetti. Impossibile.
Allora meglio lasciarsi andare con Flaiano all'ironia, la Situazione è Grave...ma non è Seria, aspettando sul fiume il cadavere di un sistema politico che puzza già e non da oggi.

giovedì 5 agosto 2010

Qualcuno ci spieghi dov'è finito il mito della frontiera americana




Pubblicato su loccidentale.it in data 5/8/2010

C'è un passaggio nelle elezioni presidenziali del 2008 che è stato poco dibattuto sin ora: con l'elezione di Barack Obama alla Casa Bianca e la vittoria del suo programma di Change - alla prova dei fatti una “normalizzazione” all'europea degli Stati Uniti - finisce una tensione, una vocazione dalla storia antica, quella della frontiera o delle frontiere. Il Paese a stelle e strisce da luogo di sperimentazione e di propulsione, da frontiera per l'appunto, utile all'applicazione coerente nella vita pubblica di idee anche radicali esercitate ai fini del perseguimento del progresso economico e civile della propria comunità, sotto il peso dei rovesci militari ed economico-finanziari, opta per il tono basso, per l'understatement.

Cosa rappresentino o cosa abbiano rappresentato il concetto di frontiera e di frontiere nella storiografia contemporanea americana (e non) è argomento ancora dibattuto: la colonizzazione del West, l'espansione inarrestabile della influenza geopolitica statunitense, la corsa allo Spazio, all'egemonia mediatica, sono state solo alcune declinazioni di una logica magistralmente illustrata da tanti illustri studiosi a partire da Frederick J. Turner.

Frederick J. Turner nella raccolta di saggi The Frontier in American History (1920), pubblicata in Italia da il Mulino nel 1975, fu il primo ad attribuire un significato meta-storico al concetto di frontiera, per Turner infatti la storia americana era stata in larga parte la storia della colonizzazione del grande ovest e l'esistenza della superficie di grandi terre, libere e aperte alla conquista, la sua retrocessione continua e l'avanzata dei coloni verso occidente, spiegavano lo sviluppo della nazione americana.

“Dietro alle istituzioni, dietro alle forme e alle trasformazioni costituzionali, stanno le forze pulsanti e operose che danno vita a questi organismi e li modellano per affrontare le mutevoli condizioni della storia. Il tratto caratteristico delle istituzioni americane consiste nel fatto che esse sono state costrette ad adattarsi ai cambiamenti di un popolo in espansione – cambiamenti connessi con la traversata di un continente, con la vittoria sulle solitudini deserte e con lo sviluppo, in ogni zona, di questo progresso dalle primitive condizioni economiche e politiche della frontiera alla complessità della vita cittadina”.

Quest’avanzata aveva prodotto il ritorno di condizioni antiche: “Ciò che il Mediterraneo rappresentava per i greci, perché recideva i legami della consuetudine, offriva nuove esperienze e suscitava nuove istituzioni e attività, questo e qualcosa di più, ha rappresentato direttamente per gli Stati Uniti e più remotamente per le nazioni d'Europa, la frontiera nel suo avanzare e nel suo continuo restringersi”.

La tesi di Turner subì poi negli anni diversi avvicendamenti che ne ridussero anche il lato romantico per ridurlo a mito e a momento di autocoscienza fondativo dell'identità americana venne poi Slotkin, con The Fatal Environment. The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization 1800-1890 - 1985, che adottò un taglio di critica sociale smitizzando gli attori dell'epopea del West e P. Nelson Limerick che in The Legacy of Conquest (1987) trovò nella frontiera il brodo primordiale della fortuna del melting pot statunitense. Ma in ogni versione della frontiera analizzata da ogni singolo studioso ancora oggi emerge l'occasione, la via di scampo, la redenzione dal passato, la voglia estrema che offra una prospettiva, il disprezzo per qualsiasi cosa sia la “vecchia società” e la voglia mal frenata di liberarsi dai suoi legami, attitudine fondamentale nel successo occidentale sul palcoscenico della storia.

Gli States di oggi, gli States che soffocano, anche tra nuove ribellioni libertarie, come quelle dei Tea Party, abbandonano il sogno americano mandando all'occidente un messaggio di conferma su di un futuro senza prospettiva, un futuro passivo dove bisogna subire gestendola, un'evoluzione a favore di altri attori in un mondo paradossalmente dall'occidente stesso creato. Subire, gestire, futuro passivo sono verbi, locuzioni concetti all'opposto dello spirito della frontiera, per dirla col Turner “la rudezza e la forza combinate con l'acutezza e la curiosità; quel pensiero pratico e invettivo, immediato nel trovare espedienti; quella magistrale capacità di comprendere le cose materiali, certo non artistica ma capace di raggiungere grandi scopi, quel inquieta, nervosa energia, quel individualismo dominante, che si adopera per il bene e per il male, e allo stesso tempo quella spinta e quell'esuberanza che viene con la libertà – questi sono i caratteri della frontiera, o comunque i caratteri che quell'esistenza o comunque i caratteri che l'esistenza della frontiera da ovunque attrae a sé”.

Per tanti anni lo spirito della frontiera ha voluto dire mettere insieme progresso e barbarie, darwinismo calvinista e timor di Dio, affermazione della volontà di prosperare sulla natura, sul corso degli eventi, uno spirito che ha finito per spedire un essere umano sulla luna e che si fatica a rintracciare nella Manhattan bianca di questi anni, fatta di una vuota competenza e di quel tecnocraticismo sfuggente con cui tanti quadri dirigenti provano a coprire la propria inesperienza e che purtroppo il Presidente Obama incarna alla perfezione.

lunedì 2 agosto 2010

How Much Private Property

How Much Private Property is the Government Stealing in Your State?

http://htxt.it/Zj7P

sabato 31 luglio 2010

Se detta legge il "pecunia non olet"


Ffwebmagazine - Se detta legge il "pecunia non olet"

Pubblicato su ffwebmagazine.it il 31/7/2010

La crisi del debito sovrano europeo sembra volgere al dimenticatoio tra i respiri di sollievo di mezzo mondo, risolta non dall'intervento governativo dei principali paesi europei quanto dalle comunicazioni pro euro della Repubblica Popolare di Cina. Dittature o modelli autoritari più o meno sanguinari o dal volto amico in giro per il mondo sfoggiano la loro immagine vincente contro un modello democratico che “non risolve”, che mostra difficoltà. Che già da tempo sia caduta l'illusione degli anni “clintoniani” di un occidente che possa godere a proprio piacimento della crescita delle grandi economie emergenti del pianeta non è una novità e nel Vecchio e Nuovo Mondo ogni questione di principio oggi appare derubricata ad un “pecunia non olet” sillabato stancamente da vecchie nobiltà produttive in decadenza.

Quello di Putin è solo paternalismo e non ci mette più in imbarazzo, il Venezuela il cui caudillo soffoca con il pugno di ferro ogni pur minimo anelito di libertà diventa metà di pellegrinaggi e simpatiche intese, l'Iran oramai sono anche i russi ad ammettere sia a un passo dall'atomica, ma la sua economia val bene una messa e meglio tenere sotto osservazione Israele si sa mai! La saggia Cina che oltre alle parole continua ad armarsi e a tenere sotto scacco il Far East attraverso il caro presidente, che Dio la preservi!

Un balletto che non comincia da oggi si dirà, ma un libro del 2008 di Robert Kagan, pubblicato in Italia da Mondadori, Il ritorno della storia e la fine dei sogni messianicamente poneva come tema centrale, nella contemporanea stagione geopolitica di ritorno ottocentesco al gioco delle nazioni, proprio lo scontro tra neo-autoritarismo e democrazie liberali e le sue conseguenze. Possiamo dirci con franchezza che il primo sta abbondantemente vincendo e che non sarà l'austerity cerchio-bottista prolungata a tempo indefinito a rendere ancora una volta vincente lo stile di vita, il modello di progresso, in breve la nostra civiltà.
Al punto che verrebbe da interrogarsi intorno ai pruriti che agitano non poche cancellerie euro-atlantiche, se l'autoritarismo non cominci a costituire quasi un modello di crescita o di sviluppo e soprattutto se anche nel nostro emisfero una certa condiscendenza verso qualche dose crescente di pressione autoritaria possa ben essere accettata.

Del resto non bisogna per forza rimanere appiccicati a vicini o lontani, piccoli o grandi manifestazioni di fastidio democratico, già nel lontano 1997 infatti illustri economisti come J. Rogers Hollingsworth e Robert Boyer, pubblicando Contemporary Capitalism, Cambridge teorizzavano come non esista un modello migliore degli altri per la moderna organizzazione della società contemporanea con l'immancabile corollario gridato a squarciagola: il mercato non deve poter essere considerato lo strumento ideale e universale per coordinare l'attività economica.

Le istituzioni economiche del capitalismo hanno una grande varietà di obiettivi e di strumenti che sono complementari e non possono vivere isolate l'un l'altra, i Sistemi-Paese hanno forze e debolezze e le loro istituzioni si evolvono secondo la logica specifica di ciascuna società: in teoria relativismo filosofico politico, in pratica ricerca del “coordinatore” perfetto. Il “mercato” quindi non deve poter essere considerato lo strumento ideale e universale per coordinare l'attività economica (ergo sociale): ma il “mercato” non era il luogo della cooperazione volontaria degli individui? Attraverso di esso non veniva assicurata l'auto-gestione di rapporti sociali liberi? La libertà non anticipa il progresso? Niente affatto meglio il coordinatore perfetto, una guida illuminata, qualcuno che coordini la complessità delle nostre istituzioni, su chi debba poi ergersi a tale responsabilità non è dato sapere: è sufficiente l'investitura democratica? C'è bisogno d'altro?

Poi arrivano le bolle, le crisi e la Crisi e la visione ideale del “mercato” viene venduta per un affarismo asfittico, soppiantata in Europa e in Italia dall'ennesima Controriforma senza mai aver avuto la Riforma, e a passare è anche il convincimento che la politica, i governi possano/debbano fare “qualcosa”, debbano intervenire, realizzandosi così lo straordinario risultato di entrare a gamba tesa sullo sforzo intellettuale e fisico – in breve umano – di trovare nuove strade, nuove vie di crescita e sviluppo che gli individui di mezzo mondo mettono in campo per riportare il treno sul binario. Che entrare a gamba tesa nella vita delle persone – anche con il miglior proposito – oltre a essere sbagliato non convenga neanche politicamente, è probabilmente qualcosa di cui Barack Obama dovrà prendere atto nelle prossime elezioni di mid-term, a seguire gli altri governi.

Un vecchio adagio la lotta per fare in modo che l'operato dei governi e delle burocrazie statali non incida oltre il minimo comun denominatore fissato dalla tutela dei diritti naturali, un adagio però alla base del successo della nostra civiltà, a partire dalla sua genesi sulle sponde elleniche fino ai contemporanei e postmoderni giorni del polpo Paul. Un adagio che racconta di un individuo che mette in sequenza logica e comportamento al fine del raggiungimento di un obiettivo che possa rappresentare per esso un successo qualsiasi, grande o piccolo che sia, senza che intervenga qualcosa o qualcuno a dire come/perché/se il traguardo debba essere raggiunto, quale scaglione di merito esso debba ricoprire o quanto sia eticamente corretto: quando la morale di fondo rovescia questa logica è dietro l'angolo qualcosa o qualcuno legittimato prima o poi a dirci in nome della mitologica figura politica “popolo”: “L'état c'est moi”.

giovedì 22 luglio 2010

USA, la favola è finita


Pubblicato su www.lapiazzaditalia.it http://htxt.it/6wSF

Mentre passa anche la riforma del sistema finanziario, un misto di iper-regolamentazione e devoluzione di maggiori poteri alla Fed con annessa creazione nel suo seno di una fantomatica “Agenzia di protezione dei consumatori”, la popolarità di Barack Hussein Obama non è mai andata così giù: sei americani su dieci si dicono convinti che il Paese sotto l’amministrazione Obama stia andando nella direzione sbagliata.
E dire che l’inquilino di Pennsylvania Avenue è riuscito ad approvare la sua, almeno in parte, riforma del sistema sanitario, si è disimpegnato dall’Iraq e si è buttato a testa bassa sull’Afghanistan, il mega stimolo all’economia da mille miliardi di dollari che aveva promesso è stato varato, l’economia a stelle e strisce, cresce, non tantissimo, ma cresce (3/3,5) a tassi che comunque da questa parte dell’Atlantico non si ricordano da anni.
Ma tant’è nonostante la pomposa ufficialità quasi da trionfo bellico nell’annunciare il passaggio della riforma del sistema finanziario, nei sondaggi gli americani sembrano aver fatto spallucce a BHO.
Il tracollo d’immagine di colui che un tempo veniva affettuosamente chiamato “The Man” pare difficile da interrompere.
Tutto comincia in una giornata d’inizio estate allorché il rotocalco di rock e costume “The Rolling Stone” racconta attraverso un suo inviato di uno sfogo da bar del capo delle operazioni militari in Afghanistan Stanley Mc Christal con alcuni quadri dell’esercito alla presenza del giornalista insider. Ne escono di cotte e di crude, sull’incompetenza di Biden, il vicepresidente, ma soprattutto il ritratto di un Presidente impaurito che chiede timidamente consigli e non sa dove metter le mani, preoccupato più che altro di concertare un romanzo fotografico convincente dell’incontro alla Casa Bianca con il nuovo comandante in capo delle operazioni militari in Afghanistan.
La notizia fa il giro del web in un istante e sui blog conservatori statunitensi campeggia il motto “Stanley 2012”, il Presidente ha una reazione isterica capace di amplificare la portata dell’accaduto e porta in breve Mc Christal alle dimissioni tra le tensioni tra Casa Bianca e apparati militari.
Poi l’attacco a Wall Street che i più dicono concertato per far dimenticare l’incidente Mc Christal e rilanciarsi in chiave elezioni di mid-term, oramai vicinissime (novembre prossimo), elezioni che non lasciano presagire nulla di buono prevedendosi il passaggio di almeno di una delle camere ai repubblicani, un partito quello dell’elefantino dei giorni d’oggi privo di un leader e di un programma ma con l’unico merito di aver mostrato dall’inizio scetticismo sulle reali capacità di un Presidente fotogenico e carismatico ma pure sempre inesperto in fatto di amministrazione della cosa pubblica.
Sullo sfondo il petrolio della BP che senza pietà inonda le coste della Louisiana senza che il gabinetto del Presidente riesca a trovare una soluzione che una per giorni e giorni dopo che Obama era stato uno dei più fieri aggressori politici del G.W. Bush incapace di reagire tempestivamente all’arrivo dell’uragano Katrina sempre sulle stesse sfortunate coste.
Il Presidente è all’angolo e il suo “Change” lascia disincantati, i più vi vedono oramai solamente l’ennesima riedizione democratica del classico Tax and Spending che affoga l’economia.
Se il disastro della BP o la figuraccia con Mc Christal spingono ai minimi la popolarità di Obama, la sua rielezione ed ancor prima il risultato delle prossime elezioni di mid-term non sarà però certamente determinato da tali fatti, i cittadini americani restano una delle democrazie più mature del pianeta e non decidono di cambiar colore misurando la propria amministrazione sulla base di disastri naturali di cui non si è responsabili o sulla base di uno scandalo qualsiasi, la verità è che il giudizio che verrà sull’amministrazione Obama verterà su tre precisi punti, punti che egli stesso aveva messo davanti all’elettorato quando si candidò: i risultati sull’occupazione della ricetta da mille miliardi di dollari obamiana; i risulati della guerra ad Al-Qaeda in Afghanistan e Pakistan; la riforma sanitaria.
Il fatto è che durante l’amministrazione di BHO l’occupazione è salita di poco più di 400.000 unità lavoro e per di più sulla base di contratti temporanei, causa – dicono gli osservatori – lo scoraggiamento delle imprese costrette a gestire una prospettiva di incremento di tasse sinora sconosciuta che sarà necessaria per dare la copertura finanziaria ai programmi e le riforme del Presidente.
In Afghanistan gli Stati Uniti hanno assunto una chiara leadership ma le ondate degli attacchi contro talebani e qaedisti paiono perdersi nelle brume delle montagne dell’Hindukusch e quello che è chiaro è che la vittoria militare continua ad essere lontana, mentre il rischio di una ritirata strategica (perché non dire chiaramente che di sconfitta si tratta) è dietro l’angolo.
Quanto alla riforma sanitaria essa nonostante sia stata varata all’italiana (la legge nei suoi aspetti salienti entrerà in vigore solamente nel 2014) ha scatenato un genuino moto di ribellione in un Paese preoccupato dall’esplosione di un deficit e di un debito pubblico che dopo gli interventi obamiani appaiono fuori controllo.
La favola del Presidente predestinato appare essere terminata, quel che è certo è che da domani ad Obama per mantenere e guadagnare credito con l’elettorato non basterà più il proverbiale magnetismo ma servirà un qualche risultato.

giovedì 15 luglio 2010

lunedì 28 giugno 2010

venerdì 28 maggio 2010

Il Superministro


Il Superministro





Pubblicato su www.lapiazzaditalia.it, 28/05/2010

“Questa crisi è un tornante della storia” e il nostro Superministro dell'Economia si è messo in testa di guidare il Paese nel gruppo dei primi a tornare al centro della carreggiata.
Non c'è che dire, superando senza colpo ferire le voci della propaganda politica, il coro è unanime, l'Italia è tra i Paesi che meglio stanno affrontando il “curvone”.
Non importa che tu sia tra quelli che Tremonti ha definito mercatisti, che tu sia uno statalista, un socialista, un pragmatico conservatore o un liberista di sinistra, la Crisi innescata dal default della Grecia ha messo impietosamente a nudo tre fattori.
Il debito pubblico conta (e l'Italia come noto possiede il terzo al mondo) ma a contare ancor di più sono il debito nazionale aggregato (pubblico e privato); le prospettive a breve del deficit e la capacità di produrre “cose” e non fuffa, di un Sistema Paese.
Il fatto è che il Ministro dell'Economia italiana questa previsione qui la fece anni or sono, suffragandola di una serie di pubblicazioni di successo, non da ultimo il best seller internazionale “La Paura e la Speranza” e per tali ragioni negli ambienti finanziari delle cancellerie europee è visto ormai quasi come un guru.
Chiamato dalla Germania a consiglio sul da farsi dopo gli errori e gli orrori del Governo Merkel nei giorni del collasso di Atene, coccolato dal Frankfurter Allgemeine e considerato dal The Economist, un qualcosa di impensabile sino a ieri per un uomo di Governo italiano.
I suoi più inveterati avversari politici, i mercatisti, sebbene nascosti spesso allignati all'interno della sua stessa fazione poltica, con la prospettiva di un Euro in discesa rispetto al dollaro nel medio periodo e quindi di un ulteriore miglioramento della bilancia dei pagamenti, parlano sotto voce di possibile capolavoro tremontiano, quello di tenere il deficit sotto controllo, ridurre il peso degli interessi del debito e prendersi la ripresa trainata dalla ripartenza delle esportazioni.
Perché l'Italia quanto a debito aggregato rivaleggia con la Francia, sta meglio del Regno Unito e degli USA e riesce a vedere la Germania, il suo deficit è sotto controllo e resta la seconda sponda manifatturiera dell'intera Unione Europea.
E siamo al giorno d'oggi: c'è bisogno di un intervento per consolidare la buona accoglienza da parte dei mercati sulla politica economica restrittiva del Governo, l'unico gioverà ricordarlo e rendergli merito, ad essersi tappato le orecchie quando ululavano le sirene dello “Stimolo” allo sviluppo, tutte esperienze rivelatesi autentici giri di denaro per la discarica della storia economica: eccola qui la manovra correttiva da 25 miliardi di Tremonti che mette - seppur timidamente - a dieta i costi della politica e della burocrazia e cerca la sua strada nella lotta all'evasione.
Blocco dei salari pubblici, riduzione, seppur di poco di quelli più alti, tagli di 4 miliardi nel 2001 e 7 miliardi nel 2012 alla spesa senza controllo delle regioni che ora i soldi dovranno trovarli o attraverso tagli di spesa oppure con nuove tasse contro un prezzo politico che i nuovi Governatori difficilmente vorranno pagare, inasprimento delle sanzioni (compresa l'ineleggibilità) per gli amministratori che bucano l'obiettivo, limite alle assunzioni.
Taglio ai rimborsi elettorali, abolizione di enti inutili, taglio orizzontale alle spese della pubblica amministrazione. Una manovra che si propone come seria, prova ne sia l'ennesimo sciopero generale della CGIL.
Molto ancora da fare invece sulle pensioni, la cui spesa è mitigata dalla riduzione degli scivoli in uscita, molto ancora da fare sulla promessa elettorale di cancellazione delle provincie osteggiata duramente però dal vero partito della spesa presente in Parlamento, la Lega, con l'unico particolare che il parere di Bossi è dirimente per la tenuta della maggioranza.
Dobbiamo quindi aspettarci un futuro con strade, ponti, piazze, statue equestri intitolate al Superministro dell'Economia italiano?
Può darsi.
Molto dipenderà dall'esito del federalismo fiscale, unica versa riforma strutturale che il Governo sembra avere in animo e possa realmente varare nella legislatura.
Resta il fatto che al tornante della storia Tremonti potrebbe ritrovarsi al volante di una delle poche macchine che puntano al traguardo.

lunedì 24 maggio 2010

Un libello sulla libertà di stampa di Mark Twain


Un libello sulla libertà di stampa di Mark Twain pubblicato su loccidentale.it 23/05/2010 http://htxt.it/2okh

Grazie ad una piccola casa editrice di Prato, Piano B Edizioni, arriva nelle librerie un piccolo libello contenente una serie di brevi saggi inediti di Mark Twain, “Libertà di stampa” (2010, pagg. 117), occasione preziosa per osservare attraverso le lenti della storia e non piegati ad una logica strumentale di scontro politico, un tema centrale per la crescita culturale di una autentica opinione pubblica: il ruolo del giornalismo nella società.

Samuel Langhorne Clemens, al secolo Mark Twain (1835-1910), visse gli anni della costruzione dell'opinione pubblica americana, un evento che si sviluppò di pari passo al consolidarsi istituzionale, economico e politico di tutta la nazione; del creatore de “Le avventure di Huckleberry Finn” Hemingway dirà “Tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain Huckleberry Finn. ... tutti gli scritti Americani derivano da quello. Non c'era niente prima. Non c'era stato niente di così buono in precedenza”.

Oltre ai meriti letterari va detto che Twain fu uno dei protagonisti di quel periodo che giova sempre ricordarlo valse non solo la tenuta dell'Unione nord-americana uscita fuori dalla Guerra di Indipendenza dall'Impero Inglese ma anche la prova compiuta che all'interno del concerto delle nazioni democrazia e libertà potevano diventare un opzione possibile.

Quegli Stati Uniti pullulavano di giornali locali che dovevano accompagnare con le loro notizie gli avventurieri per i viaggi attraverso la frontiera, il tutto in uno scenario che peccava di infrastrutture inesistenti o alla meglio approssimative, al punto da necessitarsi giorni e giorni per attraversare il Paese; ma i giornali dovevano uscire quotidianamente e così lo sforzo richiesto ai giornalisti sconfinava oltre il limite del fatto in una gara cialtronesca ma creativa ad inseguire anche solo parole riportate per chilometri e chilometri e passate di testa in testa.

Il libello, con racconti come “Giornalismo nel Tennessee” o “Come diressi un giornale per agricoltori”, aiuta a ricostruire quelle pittoresche e paradossali situazioni attraverso lo sguardo sarcastico e malinconico di uno dei padri della letteratura statunitense, ci racconta quell'epoca e quella parte di industria giornalistico-editoriale artigianale e rudimentale di testate schiacciate su tagli parossisticamente grevi, testate che crescevano tumultuosamente per poi con la stessa velocità finire nell'oblio e il tutto accadeva mentre nascevano e prendevano piede invece, altri giornali, che ancora oggi fanno la notizia negli States e nel mondo.

Gustoso “Un candidato governatore” dove l’autore racconta di un suo tentativo di cimentarsi in politica per la carica di governatore nello Stato di New York, finito nella farsa sotto i colpi delle deliberate e totalmente infondate accuse della stampa nemica, giunta alle peggiori offese e capace di mobilitare gentaglia pronta alle vie di fatto, al punto da spingere Twain a decidere di ammainare bandiera per difendere la propria onorabilità.

Nei racconti su quella stagione del giornalismo americano il rapporto con il lettore viene ricondotto con ironia a qualcosa di pericolosamente vicino, di minaccioso, con il lettore sempre dietro l'angolo pronto a farsi giustizia per vendicare in un modo o nell'altro torti patiti per la pubblicazione di una notizia o l'altra: per l'autore di “Le avventure di Tom Sawyer” e di libri come “Il Principe e il Povero”, “Un Americano alla corte di Re Artù”, “Vita sul Mississippi” alla fine la libertà di stampa si addice solamente ai trapassati. Proprio così.

Nel suo breve saggio “Il privilegio dei morti: sulla libertà d’espressione”, il grande americano arriva a sostenere come la libertà di parola sia posseduta soltanto come vuota formalità: chi la possiede sa di poterne fare uso ma non può essere considerato come un effettivo possesso ed in quanto tale il suo esercizio è assimilabile a quello di un omicidio: “si può esercitarlo solo se si è disposti a sopportarne le conseguenze”, con la differenza che l’omicidio a volte è punito, la libertà di parola sempre.

Furono gli anni dei mandati presidenziali di Thomas Jefferson ma anche delle riforme economiche di Alexander Hamilton, anni di scontri politici e di interessi accesi tra il primo partito democratico ed il partito federalista, fazioni in lotta acerrima eppure capaci di tenere insieme un New England industriale e il sud rurale, aprendo all’avventura della frontiera, il volto letterario di questo periodo fu Mark Twain di cui restano indelebili le pagine perché capace di votarsi ad una fedele ricostruzione dell'umanità varia e spesso molesta, costituita alla fin fine da gente semplice ma profondamente nobile che fu protagonista di quella stagione, così facendo si aprì la strada ad una forma di umanesimo moderna e dalle enormi potenzialità, con capacità di diffusione e di comprensione globale, qualcosa che ancora oggi il romanzo americano non sa dimenticare di poter esprimere.

venerdì 7 maggio 2010

Crisi del debito sovrano europeo, per l'Italia una luce in fondo al tunnel










La crisi economico finanziaria greca ha innescato un drammatico meccanismo mediatico-speculativo che rischia di travolgere non solo l’Euro bensì l’intero sistema economico sociale del continente già provato dagli esiti del Credit Crunch americano.
Così ci dicono gli scontri e le vittime di Atene, così ci dicono le gravi turbolenze dei mercati sui titoli bancari italiani scatenate dai dubbi di Moody’s e così ci dicono anche le incertezze politiche addirittura nella ultracentenaria democrazia britannica alle prese dopo decenni con un parlamento dalla maggioranza incerta.
La vicenda è nota, i conti pubblici greci furono taroccati sin dall’entrata di Atene nella moneta unica, l’Amministrazione pubblica del Paese si dimostra non più in grado di far fronte ai propri impegni e prossima al default senza l’intervento degli organismi finanziari internazionali e dei Paesi principali dell’Unione Europea.
Poi il balletto di Berlino intorno all’opportunità dell’intervento a sostegno del debito di un altro Stato dell’Unione, a causa della rivolta di un elettorato tedesco prossimo ad una delicata consultazione elettorale che si sente tradito dalla solenne promessa ante adesione all’Euro del sistema politico che solennemente aveva garantito che mai la Germania - a causa dell’entrata nella moneta unica - si sarebbe trovata a dover pagare per debiti di altri.
Il tutto per un messaggio arrivato forte e chiaro ai mercati finanziari globali: il debito sovrano dei Paesi europei con i conti fuori controllo non è più una fonte sicura di investimento, meglio vendere.
Contro queste grida di allarme le proposte della Merkel al Bundestag di rivedere il patto di stabilità fondativo dell’Euro, di chiedere a creditori ed investitori istituzionali di mostrarsi disposti ad allungare le scadenze dei titoli del tesoro greco, di introdurre nel patto dell’Euro una sorta di procedura fallimentare per gli Stati in default, non hanno fatto altro che aumentare l’incertezza.
Il mondo finanziario nel mentre il comparto bancario europeo, Italia e UK compresi, finisce sotto attacco, si chiede: la Germania vuole guidare l’Unione Europea dall’alto della solidità della sua economia o vuole tornare ad uno dei suoi sogni proibiti: l’Europa a due velocità, due monete, una buona (quella sua) e una cattiva?
In un batti baleno i paesi affettuosamente definiti P.I.G.S. (maiali) dalla stampa economica britannica, Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna (la “I” è stata solo di recente tolta all’Italia per essere consegnata all’Irlanda), ovvero quelli con il peggior rapporto tra Attivo su Debito pubblico e privato, sono entrati nel mirino delle agenzie di rating più spregiudicate, agenzie, giova ricordare, legate a doppia mano alla finanza statunitense di area democratica (leggi i vari George Soros) votata al sostenimento del dollaro il cui apprezzamento risulta essere fondamentale per riequilibrare un bilancio della Federal Reserve tragicamente appesantito dai bailout e dagli allegri programmi di spesa dell’Amministrazione Obama.
Da una parte quindi il necessario deprezzamento dell’Euro nei confronti del dollaro, adesso che l’economia interna statunitense dimostra segni di ripresa che potrebbero bilanciare la diminuzione delle esportazioni e quindi della crescita cui si andrebbe necessariamente incontro a causa un dollaro più forte, dall’altra la difesa dell’euro forte, baluardo contro la crescita dei tassi di interesse dei Paesi europei schiacciati da enormi debiti pubblici, in un braccio di ferro che rischia nel lungo termine di travolgere i rapporti euro-atlantici.
Una crisi originale questa cui assistiamo, giocata su grandezze aggregate che includono anche il peso dell’indebitamento dell’economia privata e non solo i numeri della finanza pubblica, valutati più che altro sulla capacità dei rendimenti dei titoli del tesoro dei vari Stati di rimanere il più agganciati possibile ai tassi dei titoli del tesoro tedeschi.
La Spagna ha reagito positivamente proprio in questi giorni con un’asta di titoli del tesoro andata tutta venduta e con uno spread sul bund tornato a scendere dopo le pericolose oscillazioni delle ultime volte, ma Madrid sarà presto chiamata a dimostrare di poter assorbire una disoccupazione vicina al 21%; al Portogallo i mercati l’hanno già giurata con un declassamento che appare dietro l’angolo per le medesime ragioni della Grecia (fatta salva la falsificazione dei conti) ovvero una economia priva di dinamicità sul versante produttivo; sull’Irlanda il giudizio resta sospeso per via della grande elasticità dell’economia di Dublino nonché al grande potenziale di crescita della pressione fiscale che l’Irlanda tuttora possiede; quindi la Gran Bretagna con un deficit ancora stabilmente a doppia cifra, un incerta tenuta del sistema finanziario ed una situazione politica che rischia di complicare maledettamente le cose, ma pur sempre la patria della City; infine noi, l’Italia.
La notizia è che, paradossalmente un’Italia capace di uscire indenne dalla turbolenza, capace cioè di riuscire a mantenere stabili i suoi fondamentali che parlano di un deficit già sotto il 4% dal prossimo anno e al 2,75 nel 2012, con un fabbisogno finanziario che negli ultimi 4 mesi è calato di 6,6 mld di Euro (-15% circa) e uno spread sui bund tedeschi sotto il punto percentuale (0,8), un rapporto tra attivo e debito aggregato tra i più competitivi in occidente (per via del bassissimo debito privato), potrebbe davvero essere prossima a cogliere la strada della ripresa e della crescita per via del deprezzamento dell’Euro che diverrebbe un autostrada privilegiata per un industria dell’esportazione ritornata di recente a trainare in positivo la bilancia dei pagamenti dopo che nell’ultimo decennio con estrema fatica è riuscita a riconvertirsi e a fare a meno delle svalutazioni competitive per vincere la sfida sui mercati: l’industria delle esportazioni non potrebbe che cogliere in pieno l’opportunità di un Euro debole trainando positivamente tutta l’economia del Paese (che resta il secondo Paese manifatturiero dell’Unione Europea) finalmente fuori dalle forche caudine della crescita zero cui l’Italia dovette piegarsi per inseguire il risanamento dei conti pubblici già a partire dal 1992.
Ma c’è un ma, l’Italia deve riuscire a non rimanere travolta dall’inevitabile effetto domino che si scatenerà attorno al default tecnico della Grecia, il nostro Paese per via del suo debito pubblico e della sua immagine di convalescente, resta uno dei fronti che la speculazione internazionale potrebbe attaccare, prova ne sia la gratuita aggressione al sistema bancario italiano (notoriamente solidissimo) cui si è assistito.
Tempestivamente il Ministro dell’Economia ha comunicato una manovra aggiuntiva per mettere nel cassetto gli obiettivi di bilancio, una manovra che appare corretta, come del resto, anche agli occhi dei più critici, appare essere stata lungimirante ed ineccepibile la strategia di Tremonti del patto di stabilità con gli enti locali, del no agli stimoli all’economia e dei denti digrignati in faccia a chiunque chieda soldi. Dovesse avverarsi lo scenario migliore per il belpaese, un posto nella storia di questo Paese non potrà toglierglielo nessuno.
Alla possibilità che non dovessimo reggere l’impatto della speculazione non vogliamo neanche pensare.

Pubblicato su www.lapiazzaditalia.it
http://www.lapiazzaditalia.it/Economia_72/Crisi%20del%20debito%20sovrano%20europeo_1292.html

venerdì 30 aprile 2010

Marino, Santoro e Niki Vendola fondano un nuovo partito


Marino, Santoro e Niki Vendola fondano un nuovo partito. Fonti attendibili riportano una svolta imminente all'interno del Partito Democratico: l'ennesima scissione. Ignazio Marino sarebbe pronto a lasciare il PD per abbracciare Niki Vendola e Sinistra e Libertà favorendo quindi l'entrata in politica di Michele Santoro che dismessi i panni di conduttore di Anno Zero sarebbe pronto al grande passo.

Il nuovissimo partito della sinistra troverebbe una sintesi, quella che una volta veniva definita una "piattaforma politica comune", sulla lotta dura e senza paura per i temi della sinistra libertaria: matrimoni gay, diritto alla dolce morte, aborto, ecc. ecc. oltre naturalmente all'impegno di bandiera contro il mai troppo poco citato precariato e la difesa di quell'informazione minata dalla egemonia berlusconiana.

Mentre gli italiani ogni volta che vengono chiamati alle urne non fanno che ribadire la loro voglia di bipartitismo o quanto meno di un bipolarismo competitivo, con l'orizzonte davanti di tre anni di legislatura, alla classe politica sembra quindi interessere di più utilizzare il tempo a disposizione per rimestare il pentolone politico che cogliere invece l'occasione storica di portare a compimento quelle riforme su cui tutte le maggiori forze politiche dietro le quinte di fatto concordano da tempo e che il Paese attende da almeno vent'anni.

Così dopo la rupture all'interno del PDL, dagli esiti tuttora incerti, si apre un'altra crepa nel sistema bipolare, questa volta a sinistra.

Un colpo questo che rischia di essere mortale per il fragile partito di Bersani, uscito malconcio dal risultato delle regionali. Dal canto suo il Segretario del PD proprio ad Anno Zero nella puntata di ieri stesso, cerca forse tardivamente, di alzare i toni per fugare le critiche di una leadership impalpabile, tentando di riagganciare un rapporto diretto con il mondo operaio industriale in agitazione, bypassando critiche ed eccezioni della stampa amica.

Ma come noto alle recenti primarie del PD Marino raccolse il 13% dei consensi e Niki Vendola viene già oggi dato tra i papabili per le primarie alla corsa per la poltrona di candidato a Palazzo Chigi nel 2013 per tutto il centro-sinistra e può vantare un indice di gradimento sull'elettorato di riferimento costantemente in crescita, infine la discesa in campo di Michele Santoro con l'ambizione di dare un volto politico a quella parte di elettorato anti-berlusconiana esasperata dalle indecisioni e dalle ambigue posizioni politiche del Partito Democratico scivolata nel dipietrismo.

A ben vedere la possibile dissoluzione del PD causata dalla scissione di Marino potrebbe portare ad una svolta centripeta per tutto il sistema politico italiano favorendo alla fine la formazione di quella famosa Kadima all'italiana che finirebbe quindi per aggregare i resti del PD insieme all'UDC, l'Alleanza di Rutelli e Tabacci sino al possibile arrivo in extremis della componente finiana del PDL, leader neanche a dirlo Luca Cordero di Montezemolo con l'obiettivo dichiarato di isolare e ridimensionare l'IDV, schiacciando a destra PDL e la Lega Nord facendo saltare lo schema bipolare.

Il pentolone della politica è in ebollizione perché dai rumors si passi ai fatti è solo questione di tempo.