Dopo la brusca frenata impressa all’economia dal Credit Crunch di Agosto, con $400 Mld in Bond emessi a fronte di mutui subprime in scadenza entro il mese, il prezzo del petrolio che balla sopra il filo del rasoio dei $100,00 , il mercato immobiliare sotto del 5%, un Governatore che prepara il paese alla recessione, anche nel paese a stelle e strisce i sostenitori della mano invisibile iniziano a non avere vita facile.
Del resto in uno scenario che ha visto il primo novembre scorso la convocazione d’urgenza del gruppo del Securing America’ Future Energy diretto dall’ex Segretario al Tesoro Robert Rubin per una simulazione con ordine del giorno petrolio alle stelle, occidente al tracollo, leader politici e militari USA preparati al peggio, non è davvero semplice spiegare in giro che la risposta non si trova in posizioni come l’arresto del processo di globalizzazione o peggio la rinascita di una visione protezionista di rapporti culturali, politici e quindi economici.
Ma per la prima volta in decenni il mondo liberal-conservatore americano si trova in difesa sotto l’offensiva di pensatori liberal come Paul Krugman, in libreria con “The Conscience of a Liberal”, W.W. Norton, pagg. 350, libro che esaltando le incertezze di una classe media spaventata dalle incognite economiche si chiede se non sia arrivato finalmente il momento di dare un po’ più da mangiare al Leviatano. Più Stato meno Società Civile.
La risposta del mondo conservatore arriva dalla penna di Brian C. Anderson, editorialista del City Journal, la rivista politico culturale trimestrale pubblicata dal Manhattan Institute, rinomato Think Tank. Il libro “Democratic Capitalism and its discontents”, ISI Books, pagg. 190, getta luce sul disagio culturale che sta minando le fondamenta del sistema di valori, prima che di rapporti economici, rappresentato dal Capitalismo democratico.
Nel lavoro di Krugman (in odor di incarico qualora alle presidenziali la spuntasse Hillary) si riciclano ancora una volta le suggestioni del New Deal roosveltiano, il progressismo di matrice sindacalista, la sperequazione dei redditi, i bei tempi in cui le tasse sui ricchi erano alte alte, finendo però a tratti per scadersi nel qualunquismo.
Ma il giochetto di Krugman ha un retrogusto vagamente indigesto e non solo perché il suo moralismo giustizialista è rimasto per sempre minato dal coinvolgimento nello scandalo Enron, allorché esaltò le capacità del top-management quando ne era consulente, ma soprattutto perché nel mondo accademico degli economisti USA, al di là degli apoditticamente entusiasti del clintoniano Center For American Progress, il testo ha finito presto per passare come pericolosamente prescioloso in ragione di un’attitudine già manifestata, quella di Krugman, nel piegare a forza i dati economici per poter riuscire a tacciare come “eccessi di mercato” le politiche dei mandati Bush, che per gli USA negli anni recenti hanno significato crescita costante in tempo di guerra, discesa delle tasse e successi nella riforma dell’istruzione, nonché incremento generoso della spesa nei programmi noti come “compassionevoli”.
Ebbene sotto questo profilo Krugman è riuscito nell’importante risultato di suscitare la reazione stizzita finanche della critica del New York Times. “L’editorialista Paul Krugman ha l’abitudine fastidiosa di modellare, tagliare e scegliere in modo selettivo i numeri per far piacere ai suoi accoliti” ha detto il garante dei lettori Daniel Okrent.
Ma tant’è, il corollario al pensiero di Krugman, alla sfiducia nella capacità umana di adattarsi all’ambiente e di trovare infine naturalmente il punto di equilibrio, riecheggia nelle tentazioni protezionistiche del sarkozysmo, nella simpatia di cui godono tra gli operatori dei mercati finanziari i Fondi Sovrani d’ispirazione cinese, come nella insorgenza di una nuova declinazione di egualitarismo che trova spazio nella politica e nella saggistica (Zeev Sternhell “Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda” Baldini Castaldi Dalai, Milano, pagg. 656) e che con incredibili giravolte argomentative finisce per additare la Arendt, Nolte, Isaiah Berlin, Furet della caduta dell’appeal illuminista in nome di una libertà individuale enigmaticamente interpretata come il passpartout per l’essere umano “monade” e non come la potenzialità di realizzare se stessi umanamente comportandosi. Sotto questo profilo la lotta al Capitalismo, il doverlo denaturare per lo meno in un misto pubblico-privato diventa esiziale: condizionando le possibilità di ciascuno di far liberamente denaro puntando “solamente” sulle proprie capacità, si limita la scelta e la libertà, ma si diventa tutti più uguali, fa niente se poveri.
Questo filone di pensiero colpevolmente dimentica di rispondere alla domanda se al cospetto del tanto decantato progresso neo-illuminista e socialista, cui innegabilmente sono state sottoposte le società occidentali dal finire degli anni ’60 ad oggi, sia possibile rinvenire sul serio un individuo meglio difeso nella sua autonomia. Così risponde Anderson nel suo “Democratic Capitalism and its discontents”. Già dai capitoli si capisce molto sul percorso del suo testo. “Il Capitalismo e il suicidio della cultura”, “La sinistra ineducabile”, “Dallo Stato alla Società Civile”, “America religiosa, Europa secolarizzata”, “La filosofia antipolitica di John Rawls”, “Il liberalismo malinconico di Bertrand de Jouvenel”, “L’assolutismo intellettuale”, “Follia liberal e la pace per i conservatori”, “Qual è la modernità democratica?”.
Per Anderson, Rawls e la sua concezione di giustizia basata sull'idea che tutti i beni sociali principali devono essere distribuiti in modo eguale e che una distribuzione ineguale può esserci solo se avvantaggia i più svantaggiati, il Bertrand de Jouvenel che sulla fine degli anni cinquanta aveva sostenuto la necessità di considerare come non bastassero scoperte e innovazioni tecnico-scientifiche ma occorresse piuttosto ricorrere alla fantasia, alla utopia, sono i principali responsabili unitamente all’esistenzialismo nichilista e violento di Sartre, nonché le aberranti sovrastrutture ideologiche di Antonio Negri, della costruzione delle principali infrastrutture per la degenerazione culturale occidentale.
La strada per Anderson è nella serrata difesa della pianta della vita, nella assicurazione del libero compiersi delle azioni umane e nello stimolo a migliorare le proprie condizioni cui, come insegna proprio la lezione dei vari Arendt, Nolte, Isaiah Berlin e Furet, solo un Capitalismo vero e radicato nel rispetto delle tradizioni può condurre.
Insomma due visioni inconciliabili, profonde, ad un confronto che va oltre la prossima sfida presidenziale e la cui importanza può essere facilmente ponderata ove si consideri a quali circostanze tragiche l’occidente fu condotto nel ‘900 per aver assecondato, in tempi di crisi, esattamente le tendenze che oggi tornano di moda: l’egualitarismo di propaganda e il protezionismo. Socialismo e sciovinismo sono ancora una volta alla finestra.
Giampiero Ricci