giovedì 13 dicembre 2007

Così Liberal Così arretrati




Dopo la brusca frenata impressa all’economia dal Credit Crunch di Agosto, con $400 Mld in Bond emessi a fronte di mutui subprime in scadenza entro il mese, il prezzo del petrolio che balla sopra il filo del rasoio dei $100,00 , il mercato immobiliare sotto del 5%, un Governatore che prepara il paese alla recessione, anche nel paese a stelle e strisce i sostenitori della mano invisibile iniziano a non avere vita facile.

Del resto in uno scenario che ha visto il primo novembre scorso la convocazione d’urgenza del gruppo del Securing America’ Future Energy diretto dall’ex Segretario al Tesoro Robert Rubin per una simulazione con ordine del giorno petrolio alle stelle, occidente al tracollo, leader politici e militari USA preparati al peggio, non è davvero semplice spiegare in giro che la risposta non si trova in posizioni come l’arresto del processo di globalizzazione o peggio la rinascita di una visione protezionista di rapporti culturali, politici e quindi economici.

Ma per la prima volta in decenni il mondo liberal-conservatore americano si trova in difesa sotto l’offensiva di pensatori liberal come Paul Krugman, in libreria con “The Conscience of a Liberal”, W.W. Norton, pagg. 350, libro che esaltando le incertezze di una classe media spaventata dalle incognite economiche si chiede se non sia arrivato finalmente il momento di dare un po’ più da mangiare al Leviatano. Più Stato meno Società Civile.

La risposta del mondo conservatore arriva dalla penna di Brian C. Anderson, editorialista del City Journal, la rivista politico culturale trimestrale pubblicata dal Manhattan Institute, rinomato Think Tank. Il libro “Democratic Capitalism and its discontents”, ISI Books, pagg. 190, getta luce sul disagio culturale che sta minando le fondamenta del sistema di valori, prima che di rapporti economici, rappresentato dal Capitalismo democratico.

Nel lavoro di Krugman (in odor di incarico qualora alle presidenziali la spuntasse Hillary) si riciclano ancora una volta le suggestioni del New Deal roosveltiano, il progressismo di matrice sindacalista, la sperequazione dei redditi, i bei tempi in cui le tasse sui ricchi erano alte alte, finendo però a tratti per scadersi nel qualunquismo.

Ma il giochetto di Krugman ha un retrogusto vagamente indigesto e non solo perché il suo moralismo giustizialista è rimasto per sempre minato dal coinvolgimento nello scandalo Enron, allorché esaltò le capacità del top-management quando ne era consulente, ma soprattutto perché nel mondo accademico degli economisti USA, al di là degli apoditticamente entusiasti del clintoniano Center For American Progress, il testo ha finito presto per passare come pericolosamente prescioloso in ragione di un’attitudine già manifestata, quella di Krugman, nel piegare a forza i dati economici per poter riuscire a tacciare come “eccessi di mercato” le politiche dei mandati Bush, che per gli USA negli anni recenti hanno significato crescita costante in tempo di guerra, discesa delle tasse e successi nella riforma dell’istruzione, nonché incremento generoso della spesa nei programmi noti come “compassionevoli”.

Ebbene sotto questo profilo Krugman è riuscito nell’importante risultato di suscitare la reazione stizzita finanche della critica del New York Times. “L’editorialista Paul Krugman ha l’abitudine fastidiosa di modellare, tagliare e scegliere in modo selettivo i numeri per far piacere ai suoi accoliti” ha detto il garante dei lettori Daniel Okrent.

Ma tant’è, il corollario al pensiero di Krugman, alla sfiducia nella capacità umana di adattarsi all’ambiente e di trovare infine naturalmente il punto di equilibrio, riecheggia nelle tentazioni protezionistiche del sarkozysmo, nella simpatia di cui godono tra gli operatori dei mercati finanziari i Fondi Sovrani d’ispirazione cinese, come nella insorgenza di una nuova declinazione di egualitarismo che trova spazio nella politica e nella saggistica (Zeev Sternhell “Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda” Baldini Castaldi Dalai, Milano, pagg. 656) e che con incredibili giravolte argomentative finisce per additare la Arendt, Nolte, Isaiah Berlin, Furet della caduta dell’appeal illuminista in nome di una libertà individuale enigmaticamente interpretata come il passpartout per l’essere umano “monade” e non come la potenzialità di realizzare se stessi umanamente comportandosi. Sotto questo profilo la lotta al Capitalismo, il doverlo denaturare per lo meno in un misto pubblico-privato diventa esiziale: condizionando le possibilità di ciascuno di far liberamente denaro puntando “solamente” sulle proprie capacità, si limita la scelta e la libertà, ma si diventa tutti più uguali, fa niente se poveri.

Questo filone di pensiero colpevolmente dimentica di rispondere alla domanda se al cospetto del tanto decantato progresso neo-illuminista e socialista, cui innegabilmente sono state sottoposte le società occidentali dal finire degli anni ’60 ad oggi, sia possibile rinvenire sul serio un individuo meglio difeso nella sua autonomia. Così risponde Anderson nel suo “Democratic Capitalism and its discontents”. Già dai capitoli si capisce molto sul percorso del suo testo. “Il Capitalismo e il suicidio della cultura”, “La sinistra ineducabile”, “Dallo Stato alla Società Civile”, “America religiosa, Europa secolarizzata”, “La filosofia antipolitica di John Rawls”, “Il liberalismo malinconico di Bertrand de Jouvenel”, “L’assolutismo intellettuale”, “Follia liberal e la pace per i conservatori”, “Qual è la modernità democratica?”.

Per Anderson, Rawls e la sua concezione di giustizia basata sull'idea che tutti i beni sociali principali devono essere distribuiti in modo eguale e che una distribuzione ineguale può esserci solo se avvantaggia i più svantaggiati, il Bertrand de Jouvenel che sulla fine degli anni cinquanta aveva sostenuto la necessità di considerare come non bastassero scoperte e innovazioni tecnico-scientifiche ma occorresse piuttosto ricorrere alla fantasia, alla utopia, sono i principali responsabili unitamente all’esistenzialismo nichilista e violento di Sartre, nonché le aberranti sovrastrutture ideologiche di Antonio Negri, della costruzione delle principali infrastrutture per la degenerazione culturale occidentale.

La strada per Anderson è nella serrata difesa della pianta della vita, nella assicurazione del libero compiersi delle azioni umane e nello stimolo a migliorare le proprie condizioni cui, come insegna proprio la lezione dei vari Arendt, Nolte, Isaiah Berlin e Furet, solo un Capitalismo vero e radicato nel rispetto delle tradizioni può condurre.

Insomma due visioni inconciliabili, profonde, ad un confronto che va oltre la prossima sfida presidenziale e la cui importanza può essere facilmente ponderata ove si consideri a quali circostanze tragiche l’occidente fu condotto nel ‘900 per aver assecondato, in tempi di crisi, esattamente le tendenze che oggi tornano di moda: l’egualitarismo di propaganda e il protezionismo. Socialismo e sciovinismo sono ancora una volta alla finestra.

Giampiero Ricci


martedì 11 dicembre 2007

FINIs Destrae


Mentre scrivo la posizione del leader di Alleanza Nazionale circa i rapporti nel centrodestra è cambiata ancora.
Nella giornata di domenica avevamo assistito allo strappo definitivo: il PDL? Una comica.
Alleanza Nazionale? Diventa Alleanza per l'Italia (?!).
Il partito storico della destra italiana in età repubblicana svoltava su posizioni care al PDS di Occhetto: Presidenzialismo alla francese, doppio turno, conflitto d'interessi.
Poi un patetico appello a Veltroni che si sarà sganasciato dalle risate.

Oggi Fini dice (meglio tardi che mai): è l'elettorato che chiede a me e Berlusconi di incontrarci.

Al di là del fatto che alla luce delle sue sconsiderate dichiarazioni degli ultimi giorni egli è probabilmente riuscito nell'incredibile risultato di accreditare agli occhi di Berlusconi la sua classe politica dirigente (!), bisognerà vedere a questo punto se un Cavaliere legittimamente inbufalito lo vorrà veramente questo incontro.

E' da tempo che ci si chiede quale sia la linea di AN, da molto prima che gli ultimi sviluppi nel centrodestra.
Cosa ne sia stato della bandiera del Presidenzialismo americano fatta propria, tra gli altri, dall'allora MSI, cosa della visione confedereativa e non federativa della Unione Europea oggi parte del "nuovismo" rappresentato da Sarkozy, non è dato sapere.
Per una volta, bisogna dirlo, grazie al Presidente di AN, la vera questione è uscita a galla: quali idee, quali programmi, QUALE CLASSE DIRIGENTE.
Appare infatti finalmente nella polemica in tutta la sua onestà povera, il motivo dell'attrito; la sua definizione?

GUERRA TRA BUROCRAZIE

Certo non è facile da questo punto di partenza che le principali forze dell'area liberl-conservatrice riescano a costruire un Partito della Libertà insieme.

Così in un battibaleno scopriamo che i silenzi enigmatici di Fini nella scorsa legislatura, l'appoggio in-condizionato (ma di facciata ed entro i limiti ben precisi di una riforma fiscale da evitarsi) a Berlusconi avevano un unica ragione: succedere a lui e al suo partito.

Dell'Italia, della rivoluzione liberale, delle riforme istituzionali, ecc. ecc. ecc. , importa sì ma fino ad un certo punto. Quello che conta è succedere a Berlusconi e rapidamente.

Ci vuole un bel coraggio a chiedere quali idee, quali programmi a Forza Italia, che avrà senz'altro un gap di struttura paradigmatico ma sotto il profilo delle idee si vorrebbe impegnata (?) nella battaglia per "liberare" questo paese in senso reaganiano e tatcheriano.
Ma probabilmente Fini vuole altro o forse quello che vuole è NULLA.

Il fatto è che a questo punto, se proprio si vuol tracciare una prospettiva della strategia seguita sino ad ora da Fini, appare in essa un carattere quasi mussoliniano e per mussoliniano non intendiamo certamente e banalmente "fascista", bensì quella tensione massima al raggiungimento del potere - vedi la rappresentazione del "Giovane Mussolini" di De Felice - che mista ad un nihilismo carnevalesco caratterizzava il Benito nazionale.
Qui il nihilismo non è nascosto da atteggiamenti carnevaleschi bensì da una freddezza e da una presentabilità utile ad arrivare silen silente a prendersi qualcosa che si ritiene il vero obiettivo anche se non abbiamo ben capito per fare cosa.

E certamente che se un domani Fini diventasse Premier, Roark non si aspetterebbe un colpo di Stato e/o una dittatura ventennale, no.
Però un altro passaggio a vuoto per questo paese che BUTTA gli anni, sì.

E' quella che si sta consumano una possibile fine della prospettiva politica di una destra moderna in Italia.

Non male.

martedì 4 dicembre 2007

Un passo avanti e due indietro: benvenuti nei nuovissimi anni '30

"Il Venezuela potrebbe non essere pronto per avviarsi verso la costruzione di una societa' socialista". Ha dichiarato il proto-dittatore Hugo Chavez, modello per il terzo millennio di aberrazioni socialcomuniste.
Nel suo intervento pubblico successivo alla sconfitta subita dal suo progetto di riforma costituzionale nel referendum di domenica scorsa sembra rammaricato.
In realtà, ora che il coraggio della popolazione venezuelana è venuto allo scoperto, per le ragioni che leggete sotto

http://lapulcedivoltaire.blogosfere.it/2007/12/chavez-sfascia-
ii-mobili-dellufficio.html

si apre la resa dei conti in Venezuela, perché Chavez sta lì per fare la rivoluzione socialista non altro. C'è da sperare (illudersi) che la comunità internazionale segua con attenzione quanto avverrà nei prossimi tempi, per eventualmente intervenire, senza, come al solito, lasciare gli U.S.A. soli a prendere posizione.
Questo il passo avanti.

I due passi indietro .
Il Presidente francese Sarkozy, dopo aver aperto al protezionismo economico e ai fondi sovrani alla "cinese", si "congratula" con Putin: siamo ancora tutti sicuri sulla sincerità del suo liberalismo?
Roark ha i suoi dubbi.
D'accordo, l'eredità della qualità di relazioni internazionali lasciata da Chirac è pesante, d'accordo Sarkozy appare meno grottesco di Chirac ma ugualmente inopportuno per questa sua ansia di uscire dall'isolamento e la Francia sembra continuare nella sua politica estera caratterizzata da un utilitarismo privo di alcuna visione etica se sufficiente a garantire gli interessi del proprio orticello.

Il secondo di passo indietro è quello che fa più rumore.
Le elezioni in Russia non sono solo la dimostrazione di una democrazia incompiuta, sono molto di più.
Se infatti la comunità internazionale ha tollerato fino ad oggi l'autoritarismo di Putin, giustificandolo con la necessità di riforme drastiche per rimettere in piedi un economia piagata da 70 di disastri comunisti, è oggi sufficientemente chiaro come lo zarino punti a giocarsi i successi economici (ottenuti grazie ai prestiti americani, bisogna ricordarlo) per spendere in chiave antioccidentale una volontà di potenza ancora più pericolosa di quella sovietica, perché scevra, anche qui, da qualsiasi indirizzo etico (per quanto sbagliato) e perciò imprevedibile.

Tanto protezionismo, nessuna etica, esaltazione della forza.

Vi ricorda qualcosa?

domenica 2 dicembre 2007

Per Cardini anche Boccaccio diventa no global

Franco Cardini è storico, romanziere, elzevirista, finalista e vincitore di ogni premio possibile e immaginabile, insignito da R. Sigismondo d’Asburgo Lorena, Granduca di Toscana, del titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Giuseppe, nonché dal Sovrano Militare Ordine di Malta del titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito melitense (basta consultare il suo curriculum per comprendere le ragioni della nostra mai sufficiente genuflessione intellettuale), arriva in libreria con un’altra impareggiabile opera, “Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo” (Salerno, 2007, pagg. 160).

La tesi è che Giovanni Boccaccio nella sua più grande opera, il Decameron, non abbia per nulla voluto rappresentare l’epopea mercantile. Non abbia voluto celebrare il fiorire della società borghese fiorentina, bensì se ne rammarichi, rimpiangendo il tempo cortese e cavalleresco. L’autore, partendo da un’analisi storiografica della Morte Nera, vede in essa la metafora non della contrapposizione del bello e delle lettere, del linguaggio alla morte, ma vi vede una punizione divina fine a se stessa che doveva simboleggiare il lavacro necessario per la corrotta Firenze.

“La condanna e il superamento” della “società borghese fiorentina e dei suoi valori alla luce di un pieno recupero del messaggio cortese cavalleresco”. Vengono estrapolate in chiave anti-liberista, citazioni sul disprezzo del denaro e delle ricchezza materiali per “condurre” il lettore alla scoperta di come Boccaccio non anticipi per nulla, come pareva a tutta la critica prima di Cardini, la rinascita umanista, il Rinascimento stesso e quindi la civiltà moderna, borghese e occidentale, che l’autore manifestamente disprezza (“borghesucci piccoli piccoli”), no Boccaccio era in realtà un anti-moderno alla Evola.

Il dubbio che sorge e che resta pure di fronte a cotanta erudizione, facendo sì che la tesi risulti vagamente strumentale e ideologica, è di come sia stato possibile (e qui c’è da meravigliarsi) argomentare un’interpretazione su di un testo fondante del trecento letterario italiano applicando categorie difficilmente non tacciabili per essere figlie di un tardo marxismo da terza o quarta ondata.

Peraltro il Decameron, manifestamente opera teologico-letteraria, è per dichiarazione espressa del Boccaccio, prodotta secondo un linguaggio ipertestuale, capace di spalancare mondi di significato differenti agli occhi di chi possiede la pazienza (e la tecnica) per leggerlo.

“Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più riverende, che quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle.”

Ma se il rischio di “perversamente intendere” diventa altissimo leggendo l’opera boccaccesca, non può non trovarsi ai limiti del paradossale il pensare possibile che il distacco narrativo e di senso che si vuole rendere nel testo, tra la morte e il momento di pace di cui si rendono protagonisti i giovani - in un trionfo anche di erotismo, di vita, di volontà di superamento e di “paroletta più liberale” – possa finire per trasformarsi nell’esaltazione proprio di quel mondo che nella narrazione essi volevano continuamente dileggiare.

Ma Cardini è noto per le sue posizioni oltranziste, che, come dire, condizionano le letture erudite. Ne “Le fatiche della libertà” (Fazi, 2007, pagg. 258), ad esempio, lo storico svela il “totalitarismo liberistico” d'Occidente ed introduce con una originalità senza pari alla tesi secondo cui gli Stati Uniti sono un “comitato d'affari”, mera espressione della “volontà di potenza” delle multinazionali (senza considerare quel Bush poi). Il paese a stelle e strisce inoltre, è portatore nel mondo di una politica diplomatico-militare “che ricorda abbastanza da vicino Hermann Goering”.

Nello stesso libro ci viene spiegato come Ahmadinejad avrebbe invece "un programma sociale interessante" che va alla grande in patria, ma nessuno ha il coraggio di dirlo (si segnalano anche “L’invenzione dell’Occidente” e “Europa e Islam. Storia di un malinteso”, come le sue posizioni nella polemica su “La Pasqua di sangue” di Ariel Toaff). Uno strano rapporto col mondo occidentale, e in particolare con quello giudiaico, che, a bene vedere, lascia molto da pensare.