venerdì 18 aprile 2008

Così resiste il "bushismo"


Che piaccia o meno, la dottrina Bush resta, a partire dalla fine della Guerra Fredda, il tentativo diplomatico di maggior rilievo degli Stati Uniti d’America di disegnare una strategia coerente e di vasto respiro.

La conclusione non è tratta da qualche dispaccio della Casa Bianca o da analisi di parte ma è invece la sintesi che si trae dalla lettura dei libri e dei papers che numerosi di questi tempi affollano coast-to-coast gli scaffali delle librerie e il web.

Proprio sul finire del secondo mandato di G.W. Bush, nell’interrogarsi sull’eredità politica lasciata dal Presidente più osteggiato da Ronald Reagan in poi, si assiste nel paese a stelle e strisce ad una nuova primavera della letteratura geopolitica.

Guerra al terrorismo, azione preventiva, libertà di agire anche fuori degli organismi internazionali, ricerca di un quadro di alleanze a perimetro variabile, esportazione della democrazia.

Su questi postulati all’indomani dell’11 settembre gli USA dissero al mondo:

Ogni nazione, in ogni regione, ha ora una decisione da prendere. Siete con noi, oppure siete con i terroristi.”

A distanza di qualche anno, secondo il think tank Brooking Institution per bocca di Philip Gordon, il postulato relativo alla “Guerra al Terrorismo” può essere giudicato un vero fallimento e ciò perché esso ha raccolto insieme minacce troppo differenti che traggono linfa vitale da scenari geopolitici profondamente distanti. L’estremismo islamico a parere di Gordon è storicamente diviso tra sciiti e sunniti, la Dottrina Bush ha ottenuto uno svantaggio strategico operando in favore di un sodalizio dei movimenti radicali in chiave anti-occidentale.

Proprio in questi giorni Frederick W. Kagan pubblica sul sito dell’American Enterprise Institute “Iraq the way Ahead, phase IV report”.

Lo stratega, autore del “Surge” traccia una fotografia della situazione della sicurezza in Iraq individuando le fondamenta del conflitto etno-settario da minare per ottenere una pace solida e duratura non tanto nella faida tra sunniti e sciiti quanto nella determinazione di piccoli e violenti gruppi sciiti di operare nella zona di Baghdad una pulizia etnica ai danni dei sunniti e ciò per vendicarsi delle angherie sotto Saddam; disegna Kagan la mappa di Al-Qaeda in Iraq e la sua reazione all’attacco americano partito dopo il “Surge”, lo stato dei rapporti con la resistenza sunnita e sciita, fiancheggiatori dei terroristi inclusi; disegna i progressi nel contrastare il terrorismo partendo dai paradisi sicuri dei nemici e dalle strade di transito da essi occupate sul finire del 2006 sino alla loro riduzione a macchie di leopardo isolate accerchiate dalla morsa delle forze della coalizione e da un esercito iracheno in progresso; disegna i prossimi passi sulla strada politica per la riconciliazione nazionale intrapresa, che debbono necessariamente portare al rafforzamento del Governo centrale; ma soprattutto disegna piani e prospettive per il 2008 che hanno come unico obiettivo il progressivo disimpegno che per Kagan può ragionevolmente tradursi nella riduzione della presenza militare in Iraq da tredici a dieci brigate entro Dicembre del 2008.

E’ il piano che in questi giorni, il Generale David H. Petraeus, a Capitol Hill chiede di rimandare, prevedendo esso già da luglio la riduzione a livelli pre-surge delle unità presenti in Iraq.

Ma l’attenzione dei policymakers è già rivolta al domani. E non solo a quello iracheno.

Del resto lo stesso Obama ha promesso di “usare la forza, unilateralmente se necessario, per proteggere il popolo americano” da minacce imminenti: evidentemente l’opzione guerra preventiva non è più considerata solo una vertigine neoconservatrice. Ecco il paradigma della “Guerra Preventiva” mantiene la sua attualità.

Così in un recente dibattito presso il Council of foreign relations si iniziano a tirare le somme dell’esperienza di questi anni incrociandosi le opinioni di Craig Cohen responsabile del progetto “Ricostruzione post-conflitto” e del Col. Garland H. Williams, autore di “Engineering Peace: The Military role in Post-Conflict Reconstruction”.

Nel dibattito si tratta su a chi debba spettare la leadership sul teatro di guerra, nel momento post-conflitto.

Il documento conclusivo del dibattito presso il Council on foreign relations arriva sorprendentemente a preferire una leadership civile che diriga quella militare poiché si ritiene fondamentale che tutti gli attori chiave siano coinvolti nella programmazione della ricostruzione post-conflitto, operatori militari e non. Dopo il conflitto infatti si deve immediatamente passare al piano per la ricostruzione e il Governo deve essere in grado di determinare quanto risulta necessario per la ricostruzione. Le organizzazioni non governative coinvolte in assistenza umanitaria devono trovarsi al di fuori della pianificazione della ricostruzione; tuttavia, il Governo deve coordinarsi anche con loro per evitare inutili duplicazioni di sforzi e risorse. Tale sforzo di programmazione deve essere guidato da leader civili al fine di ottenere la giusta sincronizzazione di tutte le parti.

Il controverso capitolo nella Dottrina Bush della “democracy building” è invece oggetto di un interessante libro di Tamara Cofman Wittes, “Freedom’s Un steady March”, pagg. 176, Brooking Istitution Press, Aprile 2008.

Il primo capitolo si apre sostenendo come “il tentativo di spingere il Medio Oriente davanti a uno stile governativo americano è stato, dopo tutto, uno dei marchi di fabbrica dell’amministrazione Bush, e i risultati hanno discreditato il progetto come pochi avrebbero immaginato.”.

Il libro esamina impietosamente il fallimento dell’amministrazione Bush nel far avanzare la libertà in Medio Oriente e delinea una strategia migliore per il futuro degli sforzi per promuovere la democrazia. La Wittes sostiene che solamente lo sviluppo di una politica più liberale e democratica nel mondo arabo renderà sicuri gli obiettivi a lungo termine degli USA e che l’America deve continuare a provare più pragmaticamente a promuovere i progressi in questa direzione.

In pratica secondo la Wittes il paradigma della promozione della democrazia nel mondo resta valido, ma sono stati i mezzi adottati ad essere sbagliati.

Critiche, distinguo e precisazioni a parte, con buona pace dei democratici di tutto il mondo, la Dottrina Bush comincia a ritagliarsi un destino politico proprio, separato da quello di colui da cui prende il nome, e sebbene essa sarà probabilmente soggetta a variazioni, ad aggiustamenti, ad attualizzazioni, quello che è certo è che resterà ancora a lungo nel repertorio diplomatico americano.

martedì 15 aprile 2008

Joy to the world all you boys and girls


E' un Roark bucolico e vagamente (nel senso leopardiano del termine) ebbro di una gioia primitiva che scrive.

In una sola notte scompare il social-comunismo dal panorama parlamentare italiano, si accende la speranza di una riforma istituzionale seria che consegni ad un paese prostrato istituzioni prestigiose e credibili, la speranza di un Governo che dalle prime battute a caldo del Premier pare volersi accingere a lavorare con volontà "tatcheriana", di un cammino verso il bipartitismo che pare inarrestabile, come la speranza di un cambiamento radicale - questa volta senza se e senza ma - che da anni il paese e il movimento politico culturale liberal-conservatore nato nel '94 aspettano.

Abbracci virtuali a parte, da domani, anzi da Maggio in poi, questo movimento avrà una responsabilità storica quanto il risultato degasperiano che il PDL e il suo Presidente ci hanno regalato: vigilare che le riforme radicali per il compimento di una Repubblica autenticamente democratica e capitalista arrivino in porto e cambino questo cazzo di Paese, restituendolo a quello che è il suo ruolo nel progresso culturale, economico e civile occidentale.

Poi ci sarà (almeno per il Presidente) la storia.

Chi lo sa? Certo a quel punto dovremo aspettarci cose come il passaggio all'ordine del giorno del riconosciuto status di padre nobile della Repubblica al Presidente e forse proprio per mano democratica - con le annesse e connesse interminabili trasmissioni a tarda notte su Rai3 che ci spiegheranno che loro erano sempre stati con il Presidente e ne avevano compreso da subito la volontà riformatrice (Mixer, Report, Primo Piano, la Dandini, ecc. ecc.) ma noi rozzo popolino per qualche oscuro e dietrologico motivo ne complicammo il cammino - magari si discuteranno migliaia di mozioni per costruire monumenti, attribuire nomi a ponti oppure semplicemente cambiare nomi a strade.

Ecco potremmo succedere che prima o poi noi si assista ad una cosa straordinaria, al cambiamento del nome di strade. Alla giustapposizione di enormi biscioni in mezzo alle aiuole dei vari viali dell'Unione Sovietica che ancora costellano la toponomastica italiana. Statue del Gabibbo davanti alle varie confederazioni sindacali.

Ma un Roark profetico e commosso (come Sandro Bondi) vede già il futuro.

Le vie che in tutta Italia sono oggi intitolate a Palmiro Togliatti venire attribuite a Silvio Berlusconi.

Game Over

venerdì 11 aprile 2008

Second Chance


Non capita spesso, soprattutto nella vita politica, di avere due occasioni.

Il lieberalconservatorismo italiano ha una seconda opportunità per cambiare radicalmente il nostro paese in senso reaganiano e tatcheriano.

E' questa l'unica possibilità, con buona pace di tanti, di allontanare quella puzza sulfurea che cominciano a diffondere istituzioni delegittimate, tessuti economici deteriorati e i tentativi che si agitano nella nostra società di disarticolare i principi etici che ne costituiscono le fondamenta.

Quando nel '94 cominciò quest'avventura le parole d'ordine erano quelle che negli '80 furono proprie della stagione del reaganismo, allora molti come Roark erano solo ragazzi (i ragazzi del '94), ragazzi che avevano finalmente trovato davanti a se un percorso politico ed etico - perché la battaglia per fare avanzare la libertà e il diritto a poter scegliere, nel nostro paese, è un percorso etico - ragazzi che avevano intravisto il raggiungimento della normalità occidentale in Italia, un paese che scrollatosi di dosso il carrozzone statale e parastatale che ne soffoca la crescita morale prima che economica, giungeva a realizzare il disegno repubblicano che fu prima della resistenza, quello dei nostri padri fondatori, in primis i mazziniani.
Un disegno quello dei primi repubblicani che guardava alla auctoritas della Repubblica (quella romana) fondata sul merito, sulla giustizia e sul perseguimento del benessere (non sull'aggressione militare come libri scolastici condizionati da un anti-fascismo di maniera ancora insegnano).

La missione del PDL è quella di rinnovare questa possibilità, di restituire una prospettiva storica, una dignità al nostro essere cittadini di questa repubblica.

Quando nella storia si è arrivati a punti di svolta simili non sono mai state rose e fiori. Il raggiungimento di tali traguardi è da sempre costato caro. La Tathcher si ritrovò per mesi i miniatori nel centro di una Londra sotto assedio. A Reagan toccò il destino mediatico che oggi osserviamo in capo a G.W. Bush. La classe dirigente del PDL sappia che se veramente questa volta non si vuole ancora sprecare il Match Point stessa sorte le toccherà.
Ma per l'amor di Dio e di noi stessi, questo le viene chiesto.

Le dichiarazioni di Berlusconi sulla vendita del patrimonio immobiliare statale, sulla cancellazione delle provincie, sul taglio di spesa pubblica nella misura di 2% annui di PIL vanno nel senso giusto. Se così avverrà, sarà possibile sul serio raggiungere un livello di tassazione giusto, quell'aliquota massima al 33% che accanto al quoziente familiare può davvero rappresentare una nuova alba dei rapporti tra Stato e cittadini.

Ci sono delle differenze sostanziali rispetto alla precedente esperienza di governo.
In primis l'esperienza appunto, poi la maturazione sul web e la carta stampata di un movimento d'opinione, giornalistico ed intellettuale, autenticamente liberalconservatore, che questa volta incalzerà il PDL al rispetto di tutti gli impegni con gli elettori.

Quei ragazzi di ieri oggi sono uomini e donne consapevoli della delicatezza della situazione in cui il nostro paese è stato messo da decenni di amministrazione di "buoni a nulla capaci di tutto", consapevoli tali uomini e tali donne che bisogna ingiungere alla propria classe dirigente l'obbligo di completare l'opera senza se e senza ma, senza riforme che entrino in vigore dopo 15 anni, pannetti caldi e buone leggine che nel marasma in cui versano le istituzioni repubblicane finiscono per diventare semplicemente una legge in più.

La classe dirigente del PDL dovrà essere pungolata, dovrà essere costretta a non farsi scappare ancora l'appuntamento con la storia.

Roark è con loro.

mercoledì 9 aprile 2008

Fucilati


C'è un film "Lock & Stock" ("Pazzi Scatenati") che ben si addice a questo ultimo scorcio di campagna elettorale.
E' un film salito all'attenzione della critica europea e americana, un po' come le montagne dei rifiuti campani.
Un film di quel trash intelligente che piace tanto ai tarantinati.
Anche Roark è un po' tarantinato.
Un film alla Trainspotting, Lock & Stock, un film del regista di Snatch, Guy Ritchie.

Ci sono giocatori d'azzardo e malavitosi, ma le cose tra di loro non vanno benissimo ed entrano in campo i fucili.

Altro che Bossi o Lombardo, in Italia dei fucili quelli veri e dei giocatori d'azzardo e dei malavitosi veri, quelli che quando non vanno più d'accordo volano le pallottole, Roark si ricorda benissimo e il 50% degli italiani ne ricordano il colore rosso del sol dell'avvenire per aver ascoltato negli anni, nei decenni la memoria di parenti e amici e questa gente si ricorda ancora benissimo delle centinaia di migliaia di mitra e fucili che i compagni dovettero loro malgrado deporre su ordine non di Togliatti, bensì di Stalin (il famoso "contrordine compagni") all'alba di questa democrazia patogena che loro volevano dittatura e che accettarono obtorto collo che fosse almeno una Repubblica dopolavorista ("La Repubblica italiana è fondata sul lavoro").
Il Prof. Sabbatucci ordinario di Storia Contemporanea oggi dice "Proporsi di rivedere questo o quell'aspetto della storia nazionale e' cosa del tutto legittima ed ognuno puo' farlo per conto proprio o farlo fare. Legare pero' tutto questo al successo elettorale di una parte politica fa pensare a qualcosa di vagamente inquietante, perche' sembra che debba essere la maggioranza parlamentare oppure il governo a riscrivere la storia", e dice ciò il Prof. a proposito delle dichiarazioni del Senatore Marcello Dell'Utri sull'opportunità di rivedere i libri di testo.
Il Prof. però è tranquillo e aggiunge "Comunque cosi' non sara' perche' cosi' non deve essere: in Italia -ha ricordato Sabbatucci- non esistono infatti le commissioni che giudicano i libri di testo".

Roark si mette a ridere.
Come quando vede Bertinotti affannarsi a difendere quel che resta di quel mondo.
Roark ride.
Roark legge la lettera di Veltroni a Berlusconi dove chiede fedeltà alla Repubblica e si mette ancora a ridere.
Poi gli appelli e le polemiche attorno a questo Papa del Comunismo riformato che è il nostro Presidente della Repubblica e ride ancora e ancora.
Quando quel mondo chiede di voltare pagina al paese chiedendogli di continuare a votarlo dopo averlo ridotto a quella che purtroppo oggi è la nostra immagine internazionale in trenta-quaranta anni di sciagurata combutta con la sinistra democristiana Roark si sbellica isterico dalle risate e pensa che questa gente è nella migliore delle ipotesi solo una conventicola di pazzi scatenati.
Ma Roark ride davvero ragazzi!
Perché la bella notizia è che per la prima volta sono tutti da un'altra parte, più o meno insieme, davanti al giudizio degli italiani. E chi starà con il Popolo della Libertà potrà dirsi legittimamente estranea alla responsabilità dello sfascio delle nostre istituzioni, della nostra economia, delle nostre tradizioni.

Per questa gente, pur se la sconfitta politica potrebbe non essere travolgente, quella culturale lo è gia.

venerdì 4 aprile 2008

Diritto di replica


Una cosa è chiara e va detta. E indipendentemente da quello che sarà il risultato della contesa elettorale.

La guerra culturale, quella contro il mondo collettivista, qui in Italia la stiamo vincendo noi.

E' questa la vera notizia che ci regala la campagna elettorale.
Non tanto per le capriole veltroniane, gli imbarazzi dalemiani o i Calearo e i Del Vecchio, no. Non per il ripiegamento su posizioni proto-liberali del mainstream sinistrorso, no.

Spesso le verità più evidenti si nascondo dietro i dettagli, dietro i particolari, dietro gli avanzi distratti della nuda e cruda essenza dello scontro in essere nelle nostre società opulente e stanche.

In questi anni in Italia l'emergere di un giornalismo e di un movimento di opinone autenticamente liberale e conservatore nella carta stamapata e soprattutto su internet, un mondo politico culturale che seppure all'inizio del cammino è riuscito a portarsi da subito all'attenzione di chi è in cerca di qualcosa di diverso dal conformismo post marxista, dal perbenismo ieri comunista e oggi "democratico", ha mandato in tilt il meccanismo autoreferenziale della "gioiosa macchina da guerra" culturale post-comunista, riducendo l'impatto mediatico della sua influenza.

Ebbene le uova e i pomodori, la violenza fisica per imperdire a Giuliano Ferrara di parlare, bè sono la manifestazione più evidente, lampante, preclara della impotenza della sinistra contemporanea (di cui i centri sociali sono i pretoriani) di fronte alle idee che iniziano a circolare.
E per quanto le posizioni di Giuliano Ferrara non siano propriamente e del tutto trasversali alla galassia liberal-conservatrice italiana, rimane "il Direttore" pur sempre il difensore dell'avamposto di questo movimento di opinione.
Roark è con lui. E con lui rivendica il diritto di rispedire al mittente quanto merita.

martedì 1 aprile 2008

L'uomo giusto al posto giusto


Roma, 1 apr. (Adnkronos) - ''Da amico dico a Tremonti che non potra' svolgere al meglio la sua funzione se sul ministro dell'Economia si cumuleranno troppe deleghe. Inoltre, da liberale sono favorevole a una suddivisione del potere per evitare concentrazioni potenzialmente pericolose''. Lo sostiene il parlamentare di Fi, Antonio Martino, in un'intervista al quotidiano online L'Occidentale, nella quale spiega perche' i motivi per cui sarebbe contrario a un superministero dell'Economia affidato a Giulio Tremonti e nella quale dichiara la sua disponibilita' per un incarico governativo in campo economico.

La voce di Martino, cui tanti liberali si affidano, torna a farsi sentire e Roark è con lui.

Meglio tardi che mai!

Nell'intervista riappare finalmente l'allievo di Milton Friedman e...diciamocelo...educatamente....molto educatamente...ma diciamocelo: finalmente!
Finisce l'assolutismo tremontiano in materia economica e anche sul versante liberale interno al PDL si apre un fronte che doverosamente mette in risalto la pericolosità del conservatorismo corporativista di Giulio Tremonti, malauguratamente Ministro dell'Economia in pectore del (incrociamo le dita) prossimo Governo Berlusconi.
Il montpelerino è l'unica speranza che ha il nostro paese di fare veramente quelle riforme tatcheriane di cui ha drammaticamente bisogno.
E' l'unica speranza di avere in un Ministero Economico qualcuno che
sappia veramente cosa fare al di là dei pannetti caldi e del buon governo para-liberale.
E' l'unico che sarebbe in grado di prendersi le responsabilità che vanno prese.

Poiché sarebbe la cosa giusta da fare, Roark è praticamente certo che ciò non avverrà, che al meglio Martino andrà a ricoprire il Ministero della Difesa o in alternativa un dicastero secondario, oppure dopo aver rilasciato questa intervista, semplicemente verrà messo all'angolo, come già capitato ad importanti figure già presenti in Forza Italia:
una minaccia troppo ingombrante per Tremonti, che vale la pena ricordarlo, resta il garante dell'alleanza con la Lega, una Lega oggi tristemente poco libertaria, autonomista sì, ma di un autonomismo neocentralista, protezionista e in fin dei conti oggi molto poco liberista; infine una minaccia troppo grande per il mondo dei privilegi del pubblico impiego cui un parte importante dell'anima di AN guarda con attenzione.
Ma si dirà, il fusionismo docet. E Roark è con il fusionismo. Ma se di fusionismo dobbiamo parlare allora anche la nostra di anima, l'anima puramente liberale deve avere una chance di riformare il volto economico del Paese, il realismo tremontiano già l'ha avuta questa chance (fallendo).

La cosa da farsi?
MARTINO MINISTRO DELL'ECONOMIA.