giovedì 5 agosto 2010

Qualcuno ci spieghi dov'è finito il mito della frontiera americana




Pubblicato su loccidentale.it in data 5/8/2010

C'è un passaggio nelle elezioni presidenziali del 2008 che è stato poco dibattuto sin ora: con l'elezione di Barack Obama alla Casa Bianca e la vittoria del suo programma di Change - alla prova dei fatti una “normalizzazione” all'europea degli Stati Uniti - finisce una tensione, una vocazione dalla storia antica, quella della frontiera o delle frontiere. Il Paese a stelle e strisce da luogo di sperimentazione e di propulsione, da frontiera per l'appunto, utile all'applicazione coerente nella vita pubblica di idee anche radicali esercitate ai fini del perseguimento del progresso economico e civile della propria comunità, sotto il peso dei rovesci militari ed economico-finanziari, opta per il tono basso, per l'understatement.

Cosa rappresentino o cosa abbiano rappresentato il concetto di frontiera e di frontiere nella storiografia contemporanea americana (e non) è argomento ancora dibattuto: la colonizzazione del West, l'espansione inarrestabile della influenza geopolitica statunitense, la corsa allo Spazio, all'egemonia mediatica, sono state solo alcune declinazioni di una logica magistralmente illustrata da tanti illustri studiosi a partire da Frederick J. Turner.

Frederick J. Turner nella raccolta di saggi The Frontier in American History (1920), pubblicata in Italia da il Mulino nel 1975, fu il primo ad attribuire un significato meta-storico al concetto di frontiera, per Turner infatti la storia americana era stata in larga parte la storia della colonizzazione del grande ovest e l'esistenza della superficie di grandi terre, libere e aperte alla conquista, la sua retrocessione continua e l'avanzata dei coloni verso occidente, spiegavano lo sviluppo della nazione americana.

“Dietro alle istituzioni, dietro alle forme e alle trasformazioni costituzionali, stanno le forze pulsanti e operose che danno vita a questi organismi e li modellano per affrontare le mutevoli condizioni della storia. Il tratto caratteristico delle istituzioni americane consiste nel fatto che esse sono state costrette ad adattarsi ai cambiamenti di un popolo in espansione – cambiamenti connessi con la traversata di un continente, con la vittoria sulle solitudini deserte e con lo sviluppo, in ogni zona, di questo progresso dalle primitive condizioni economiche e politiche della frontiera alla complessità della vita cittadina”.

Quest’avanzata aveva prodotto il ritorno di condizioni antiche: “Ciò che il Mediterraneo rappresentava per i greci, perché recideva i legami della consuetudine, offriva nuove esperienze e suscitava nuove istituzioni e attività, questo e qualcosa di più, ha rappresentato direttamente per gli Stati Uniti e più remotamente per le nazioni d'Europa, la frontiera nel suo avanzare e nel suo continuo restringersi”.

La tesi di Turner subì poi negli anni diversi avvicendamenti che ne ridussero anche il lato romantico per ridurlo a mito e a momento di autocoscienza fondativo dell'identità americana venne poi Slotkin, con The Fatal Environment. The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization 1800-1890 - 1985, che adottò un taglio di critica sociale smitizzando gli attori dell'epopea del West e P. Nelson Limerick che in The Legacy of Conquest (1987) trovò nella frontiera il brodo primordiale della fortuna del melting pot statunitense. Ma in ogni versione della frontiera analizzata da ogni singolo studioso ancora oggi emerge l'occasione, la via di scampo, la redenzione dal passato, la voglia estrema che offra una prospettiva, il disprezzo per qualsiasi cosa sia la “vecchia società” e la voglia mal frenata di liberarsi dai suoi legami, attitudine fondamentale nel successo occidentale sul palcoscenico della storia.

Gli States di oggi, gli States che soffocano, anche tra nuove ribellioni libertarie, come quelle dei Tea Party, abbandonano il sogno americano mandando all'occidente un messaggio di conferma su di un futuro senza prospettiva, un futuro passivo dove bisogna subire gestendola, un'evoluzione a favore di altri attori in un mondo paradossalmente dall'occidente stesso creato. Subire, gestire, futuro passivo sono verbi, locuzioni concetti all'opposto dello spirito della frontiera, per dirla col Turner “la rudezza e la forza combinate con l'acutezza e la curiosità; quel pensiero pratico e invettivo, immediato nel trovare espedienti; quella magistrale capacità di comprendere le cose materiali, certo non artistica ma capace di raggiungere grandi scopi, quel inquieta, nervosa energia, quel individualismo dominante, che si adopera per il bene e per il male, e allo stesso tempo quella spinta e quell'esuberanza che viene con la libertà – questi sono i caratteri della frontiera, o comunque i caratteri che quell'esistenza o comunque i caratteri che l'esistenza della frontiera da ovunque attrae a sé”.

Per tanti anni lo spirito della frontiera ha voluto dire mettere insieme progresso e barbarie, darwinismo calvinista e timor di Dio, affermazione della volontà di prosperare sulla natura, sul corso degli eventi, uno spirito che ha finito per spedire un essere umano sulla luna e che si fatica a rintracciare nella Manhattan bianca di questi anni, fatta di una vuota competenza e di quel tecnocraticismo sfuggente con cui tanti quadri dirigenti provano a coprire la propria inesperienza e che purtroppo il Presidente Obama incarna alla perfezione.

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