"Yes we can...disarm?" scrive in un editoriale sul Washington Post Anne Applebaum, il ritorno dal viaggio in Europa del Presidente Obama è stato condito da più di un interrogativo da parte degli addetti ai lavori sulla direzione che il Paese a stelle e strisce sta prendendo in politica estera.
Ma da parte degli addetti ai lavori...perché quanto all'elettorato, un recentissimo sondaggio del New York Times, ripreso sul noto sito di attualità politica americana realclearpolitics.com, dà il Presidente con un indice gradimento che oscilla tra il 61 e il 66%.
La politica delle "scuse", così come è stata ribattezzata, asseconda gli istinti isolazionisti di una classe media americana rinfrancata dall'accanimento fiscale contro i più abbienti, categoria in cui l'opinione pubblica frustrata da una pesantissima recessione, vede i responsabili del disastro finanziario.
Ma al di là degli effetti di un pur legittimo populismo, che nel caso di specie può servire a tenere unita una società provata, restano pur sempre sul tavolo e tutte, le perplessità sollevate sulla svolta alla politica internazionale che la nuova Casa Bianca, non solo a parole ma nei fatti, ha cominciato ad imprimere.
Che da un Governo democratico bisognasse aspettarsi una maggiore focalizzazione sul versante del Pacifico era nelle cose, già dal primo Governo Clinton fu evidente come la dirigenza democratica, storicamente portatrice in economia di dollaro forte e crescita economica sostenuta anche se a discapito del budget e del debit0, fosse interessata a intercettare tale crescita nelle economie emergenti delle tigri asiatiche, nel rapporto privilegiato con la Corea del Sud, nell'alleato giapponese e soprattutto nell'assecondamento della inevitabile crescita cinese.
A tale visione sembra uniformarsi il nuovo Segretario di Stato, Hillary Clinton, quello che gli osservatori internazionali non hanno però mancato di sottolienare è che durante il G20 di Londra si è assistito però ad un rovesciamento delle parti: adesso è la Cina che asseconda gli Stati Uniti d'America non per la crescita bensì per la sopravvivenza.
Il prezzo pagato da Washington per far sì che Pechino continui a comprare buoni del tesoro americani è stato infatti quello di concedere al Governo cinese l'aumento graduale in seno al FMI dei diritti speciali di prelievo: in pratica l'ufficialità dell'incremento dell'influenza cinese all'interno della principale istituzione finanziaria mondiale.
Se alla decretazione della crescita del potere cinese globale, si unisce l'apertura indiscriminata a Teheran che butta al mare decenni di opposizione e dissidenza nel Paese degli Ayatollah, l'allargamento delle trattative politiche in Afghanistan ai Talebani - quelli moderati (?) - la fretta di lasciare un Iraq sulla strada della pacificazione, l'abbraccio alla Russia autoritaria di Medvedev in nome di un nuovo disarmo nucleare con l'implicita rinuncia alla politica della deterrenza, la visione di un'Europa che interessa solo che fagocita dentro di sé la Turchia scaricando così gli States di responsabilità nel rapporto con il mondo islamico, l'interrogativo di Anne Applebaum ("Yes we can...disarm?") appare pertinente.
Quello che il Presidente Obama deve ancora dimostrare è che la politica della mano tesa porti realmente ad una maggiore stabilità sullo scacchiere internazionale e senza che gli U.S.A. finiscano per liquidare la propria influenza nel mondo nel lampo di una generazione: in fin dei conti, come da qualcuno è stato rilevato, nel 1939 non esisteva alcuna minaccia nucleare e gli Stati Uniti stavano per i fatti propri, eppure finì come sappiamo.
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