Che piaccia o meno, la dottrina Bush resta, a partire dalla fine della Guerra Fredda, il tentativo diplomatico di maggior rilievo degli Stati Uniti d’America di disegnare una strategia coerente e di vasto respiro.
La conclusione non è tratta da qualche dispaccio della Casa Bianca o da analisi di parte ma è invece la sintesi che si trae dalla lettura dei libri e dei papers che numerosi di questi tempi affollano coast-to-coast gli scaffali delle librerie e il web.
Proprio sul finire del secondo mandato di G.W. Bush, nell’interrogarsi sull’eredità politica lasciata dal Presidente più osteggiato da Ronald Reagan in poi, si assiste nel paese a stelle e strisce ad una nuova primavera della letteratura geopolitica.
Guerra al terrorismo, azione preventiva, libertà di agire anche fuori degli organismi internazionali, ricerca di un quadro di alleanze a perimetro variabile, esportazione della democrazia.
Su questi postulati all’indomani dell’11 settembre gli USA dissero al mondo:
“Ogni nazione, in ogni regione, ha ora una decisione da prendere. Siete con noi, oppure siete con i terroristi.”
A distanza di qualche anno, secondo il think tank Brooking Institution per bocca di Philip Gordon, il postulato relativo alla “Guerra al Terrorismo” può essere giudicato un vero fallimento e ciò perché esso ha raccolto insieme minacce troppo differenti che traggono linfa vitale da scenari geopolitici profondamente distanti. L’estremismo islamico a parere di Gordon è storicamente diviso tra sciiti e sunniti, la Dottrina Bush ha ottenuto uno svantaggio strategico operando in favore di un sodalizio dei movimenti radicali in chiave anti-occidentale.
Proprio in questi giorni Frederick W. Kagan pubblica sul sito dell’American Enterprise Institute “Iraq the way Ahead, phase IV report”.
Lo stratega, autore del “Surge” traccia una fotografia della situazione della sicurezza in Iraq individuando le fondamenta del conflitto etno-settario da minare per ottenere una pace solida e duratura non tanto nella faida tra sunniti e sciiti quanto nella determinazione di piccoli e violenti gruppi sciiti di operare nella zona di Baghdad una pulizia etnica ai danni dei sunniti e ciò per vendicarsi delle angherie sotto Saddam; disegna Kagan la mappa di Al-Qaeda in Iraq e la sua reazione all’attacco americano partito dopo il “Surge”, lo stato dei rapporti con la resistenza sunnita e sciita, fiancheggiatori dei terroristi inclusi; disegna i progressi nel contrastare il terrorismo partendo dai paradisi sicuri dei nemici e dalle strade di transito da essi occupate sul finire del 2006 sino alla loro riduzione a macchie di leopardo isolate accerchiate dalla morsa delle forze della coalizione e da un esercito iracheno in progresso; disegna i prossimi passi sulla strada politica per la riconciliazione nazionale intrapresa, che debbono necessariamente portare al rafforzamento del Governo centrale; ma soprattutto disegna piani e prospettive per il 2008 che hanno come unico obiettivo il progressivo disimpegno che per Kagan può ragionevolmente tradursi nella riduzione della presenza militare in Iraq da tredici a dieci brigate entro Dicembre del 2008.
E’ il piano che in questi giorni, il Generale David H. Petraeus, a Capitol Hill chiede di rimandare, prevedendo esso già da luglio la riduzione a livelli pre-surge delle unità presenti in Iraq.
Ma l’attenzione dei policymakers è già rivolta al domani. E non solo a quello iracheno.
Del resto lo stesso Obama ha promesso di “usare la forza, unilateralmente se necessario, per proteggere il popolo americano” da minacce imminenti: evidentemente l’opzione guerra preventiva non è più considerata solo una vertigine neoconservatrice. Ecco il paradigma della “Guerra Preventiva” mantiene la sua attualità.
Così in un recente dibattito presso il Council of foreign relations si iniziano a tirare le somme dell’esperienza di questi anni incrociandosi le opinioni di Craig Cohen responsabile del progetto “Ricostruzione post-conflitto” e del Col. Garland H. Williams, autore di “Engineering Peace: The Military role in Post-Conflict Reconstruction”.
Nel dibattito si tratta su a chi debba spettare la leadership sul teatro di guerra, nel momento post-conflitto.
Il documento conclusivo del dibattito presso il Council on foreign relations arriva sorprendentemente a preferire una leadership civile che diriga quella militare poiché si ritiene fondamentale che tutti gli attori chiave siano coinvolti nella programmazione della ricostruzione post-conflitto, operatori militari e non. Dopo il conflitto infatti si deve immediatamente passare al piano per la ricostruzione e il Governo deve essere in grado di determinare quanto risulta necessario per la ricostruzione. Le organizzazioni non governative coinvolte in assistenza umanitaria devono trovarsi al di fuori della pianificazione della ricostruzione; tuttavia, il Governo deve coordinarsi anche con loro per evitare inutili duplicazioni di sforzi e risorse. Tale sforzo di programmazione deve essere guidato da leader civili al fine di ottenere la giusta sincronizzazione di tutte le parti.
Il controverso capitolo nella Dottrina Bush della “democracy building” è invece oggetto di un interessante libro di Tamara Cofman Wittes, “Freedom’s Un steady March”, pagg. 176, Brooking Istitution Press, Aprile 2008.
Il primo capitolo si apre sostenendo come “il tentativo di spingere il Medio Oriente davanti a uno stile governativo americano è stato, dopo tutto, uno dei marchi di fabbrica dell’amministrazione Bush, e i risultati hanno discreditato il progetto come pochi avrebbero immaginato.”.
Il libro esamina impietosamente il fallimento dell’amministrazione Bush nel far avanzare la libertà in Medio Oriente e delinea una strategia migliore per il futuro degli sforzi per promuovere la democrazia. La Wittes sostiene che solamente lo sviluppo di una politica più liberale e democratica nel mondo arabo renderà sicuri gli obiettivi a lungo termine degli USA e che l’America deve continuare a provare più pragmaticamente a promuovere i progressi in questa direzione.
In pratica secondo la Wittes il paradigma della promozione della democrazia nel mondo resta valido, ma sono stati i mezzi adottati ad essere sbagliati.
Critiche, distinguo e precisazioni a parte, con buona pace dei democratici di tutto il mondo, la Dottrina Bush comincia a ritagliarsi un destino politico proprio, separato da quello di colui da cui prende il nome, e sebbene essa sarà probabilmente soggetta a variazioni, ad aggiustamenti, ad attualizzazioni, quello che è certo è che resterà ancora a lungo nel repertorio diplomatico americano.