Quando il ciclo economico è in assestamento e si affacciano paure di recessione fioccano in libreria lavori come “Capitalismo. Istruzioni per l’uso”, Karl Marx. Il testo a cura di Enirco Dosaggio e Peter Kammerer, edito da Feltrinelli (Milano, pagg. 208) è un antologia del pensiero del filosofo di Treviri che rappresenta l’ennesimo tentativo di separare il Marx utopista da quello critico del Capitalismo.
Siamo sicuri sia possibile praticare una simile separazione? Dacché è caduto il muro di Berlino e i disastri dell’economia socialista sono venuti a galla, i sostenitori del sol dell’avvenire hanno preso ad ammantare di un alone di velleitarismo nostalgico volontariamente elitario un programma politico economico e una interpretazione dei rapporti umani che era dichiaratamente rivoluzionaria e propugnatrice di un sovvertimento violento ove necessario.
Ai giorni nostri e specialmente in Italia, paese che osserva un vuoto pauroso di puntelli filosofici e culturali di natura laica di un qualche valore, il mondo dei sostenitori a diverso titolo del collettivismo appare perdersi nel nichilismo e consolarsi con il recupero in chiave pop di paradigmi bicentenari. L’antologia postmoderna del pensiero marxista, dopo l’introduzione di Dosaggio e Kammerer che si affaticano per trovare un posto a Marx nella società contemporanea, dipana la sua trama come un romanzo. Ai capitoli vengono dati titoli come ‘My name is Marx’ e ‘Il lavoro. Vendersi la vita’ e il racconto si apre con il rapporto di un agente segreto prussiano, poi documenti, testimonianze, paradossi, passaggi celebri, analisi.
La bibliografia vuole apparire come imparziale, suggerendoci ad esempio quella di Leszek Kolakowski, “Nascita, sviluppo e dissoluzione del marxismo”, 1976-1978, Sugarco, ma resta un po’ datata visto che trattasi di testo antecedente alla osservazione empirica del risultato ultimo negli sviluppi del pensiero marxista. Frasi che mandano in brodo di giuggiole vetero e neo marxisti: “un possessore di denaro” è “come bruco del capitalista”, “feticismo delle merci”, “tutto quel che è solido svanisce nell’aria”, “la critica non è una passione del cervello, è il cervello della passione”; “noi non trasformiamo le questioni terrene in questioni teologiche. Noi trasformiamo le questioni teologiche in questioni terrene. Dopo che per lungo tempo la storia si è risolta in superstizione, noi risolviamo la superstizione in storia”; “una sedia a quattro zampe ricoperta di velluto rappresenta, in date circostanze, un trono; ma non per questo una sedia, cioè un oggetto che serve per sedersi, diviene un trono per la natura del suo valore d’uso”; “Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Come individuo io sono storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe”, per un pensiero da capire appunto.
A chi come noi non resta illuminato, viene consigliato di intendere questa nuova proposizione e interpretazione di Marx come stimolo critico nei confronti di un sistema capitalistico irrimediabilmente compromesso e corrotto. Permane nella lettura che si ricava dall’antologia, l’idea che la lezione circa l’errore tecnico alla base della teoria del plusvalore (in dottrina fatto pacifico da più di qualche decennio) che dimenticò di considerare la variabile innovazione, non sia stata ancora digerita da tutti visto e considerato che il Capitalismo viene rappresentato come il trionfo dell’impotenza delle idee e del potere delle cose.
Quanto paradossale sia una lettura similare ai giorni nostri è del tutto intuitivo, se si considera come senza il continuo feed-back che il Capitalismo assicura alla spinta innovativa, alla ricerca, gli ‘odiati’ mercati non potrebbero essere soggetti a meri aggiustamenti, a fasi ciciliche (come quella che stiamo vivendo), bensì dovrebbero implodere irrimediabilmente (come è invece accaduto al sistema socialista). E poi ancora i passi sulla religione, il no a tutti i riformismi, perché cavalli di Troia capitalisti piegati al volere del denaro, ecc. ecc. Tornano insomma d’attualità ancora una vota frasi celebri come “l’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua (del popolo) condizione, è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”, quell’ermetismo poetico messo al servizio di una filosofia pronta a consegnare all’uomo lo splendore dell’assenza di responsabilità. Un mondo facile e alla portata di tutti senza tante fatiche come dovrebbe essere secondo giustizia. E soprattutto l’assenza di responsabilità, una delle poche definizioni certe, va ricordato, del “male”. Ma inversione per inversione se è vero, come insegna Popper, che la migliore pratica è una buona teoria, una pratica pessima non può che nascere da una pessima teoria. Ergo i drammatici corollari del marxismo.
Ma ci sono solo ragioni ‘liriche’ dietro la fortuna di Marx in Italia? Per occhi un po’ più smaliziati, le ragioni del successo italiano del pensiero marxista possono ben essere comprese semplicemente considerandole come giustificazione teorica, quella che esse hanno rappresentato, in supporto all’espropriazione statale e parastatale della ricchezza faticosamente raggiunta nel secondo dopoguerra. Sotto la spinta culturale e popolare di matrice marxista, per assecondarla e incanalarla, è finito infatti per passare quel gigantismo welfaristico e affaristico da cui l’Italia da treant’anni a questa parte mai si è ripresa. Questo libro ci riporta lì, direttamente alle radici culturali del male italiano.
Capitalismo. Istruzioni per l’uso, Karl Marx, a cura di Enirco Dosaggio e Peter Kammerer, Feltrinelli, pp. 266, euro 10