sabato 20 dicembre 2008

La sfida di Yon


colloquio con Yon Goicoechea di Giampiero Ricci


Il Venezuela negli ultimi anni è divenuto un laboratorio politico sotto continua osservazione e non solo per essere il terzo Paese al mondo per risorse petrolifere. Da una parte il Governo del Presidente Hugo Chavez che si batte per trasformare la società secondo il suo personalissimo “Socialismo del XXI secolo” ovvero il tentativo di rinnovare l’esperienza comunista cubana di Castro, dall’altra una società civile legata ad istituzioni democratiche consolidate, che lotta pacificamente per il rispetto delle proprie libertà e per impedire il consolidamento di una dittatura.
La battaglia politica si respira giorno per giorno, in ogni momento, soprattutto per le strade dove si trovano i gazebo dei chavisti che sostengono la propaganda per gli emendamenti costituzionali proposti dal Presidente, ma dove si incontrano anche studenti che hanno già ricominciato azioni di protesta e manifestazioni, gli stessi studenti protagonisti della sonora sconfitta di Chavez nel dicembre 2007 allorché il Presidente si presentò alle urne con la sua prima proposta di riforma e fu costretto ad accettare il responso delle urne solamente grazie all’intervento dell’esercito.
Il terreno dello scontro è continuamente accidentato da interventi governativi autoritari, estensione forzosa del controllo sui media, minacce ai dissidenti che legittimano moralmente le violenze cui facilmente si abbandonano frange radicali, la creazione di un esercito del Presidente fuori della tradizionale catena di comando, ricerca continua di alleanze internazionali militari in chiave anti-occidentale.
Così mentre sono state appena chiuse le recenti amministrative di novembre, già ci si prepara all’ennesima battaglia elettorale perché il Presidente Hugo Chavez ha da poco annunciato che attraverso l’iniziativa dell’Assemblea Nacional, riproporrà, per il Febbraio prossimo una riforma costituzionale che preveda ancora una volta l’eleggibilità senza limiti di mandati per un Presidente eletto.
Incontriamo Yon Goicoechea, studente dell’Università Cattolica, Presidente dell’Istituto Metropolitano de la Iuventute e leader del movimento studentesco venezuelano protagonista dell’inaspettato NO del 2007, una riforma che allora prevedeva oltre alla rieleggibilità a tempo indeterminato del Presidente, anche la nazionalizzazione della Banca Centrale, limitazioni del diritto alla proprietà e alla pluralità di espressione politica.
Signor Goicoechea può raccontarci come tutto ebbe inizio?

Tutto cominciò durante le discussioni politiche nelle diverse università del Paese cui seguì la decisione di stabilire una relazione duratura tra i diversi leader delle università, un network tra di noi per discutere della situazione politica.
Iniziò come un esercizio accademico ma dopo la chiusura della RCTV, la più grande rete televisiva in Venezuela, una rete privata, che fu chiusa dal Presidente Chavez perché giudicata non in linea con il proprio pensiero “rivoluzionario” e perché la linea della TV era una linea di opposizione al Governo in carica, dopo la chiusura della RCTV, ci riunimmo e andammo tutti in strada a dimostrare il nostro disaccordo sulla decisione, realizzammo l’importanza e il potere che i giovani hanno in una società, così decidemmo di creare un Parlamento Nazionale degli Studenti ed invitammo tutti i rappresentanti di tutte le Università del Venezuela.
In Venezuela noi abbiamo questa situazione speciale per cui l’estrema destra ha perso tutti i rappresentanti nelle Università e in tutte le Università i rappresentanti sono di centro-destra, centro-sinistra o anche centro, così fu davvero facile riunirci tutti quanti contro la proposta di emendamento della Costituzione; decidemmo di confrontarci con la proposta di Chavez e organizzammo 45 dimostrazioni, marce, in Caracas e simultaneamente in altre otto città del Venezuela, le maggiori, la più grande fu di 200.000 mila persone, la più piccola di 10.000 .
Ci rendemmo garanti della regolarità del referendum, entrando nei seggi come osservatori.

Quale fu il messaggio che diffondeste nel Paese?

Libertà, la voglia di considerarla un fenomeno umano che va oltre l’idea di libertà puramente economica, io penso che la strategia di comunicazione del liberalismo nel mondo di oggi sia errata e ciò è dovuto alla eccessiva concentrazione tenuta sul fenomeno economico, la libertà è molto di più di un fenomeno economico, è importante naturalmente che esista un sistema economico imperniato sulla libertà, ma la libertà ha a che fare anche con la natura umana, con il riconoscimento che le persone possono essere diverse; noi difendiamo il valore della libertà nel suo significato più ampio di rispetto delle idee degli altri. Noi difendiamo la libertà, lo Stato di diritto, la non discriminazione e la libertà di espressione.
Difendiamo l’idea di riconciliazione in Venezuela, abbiamo un sistema politico e sociale molto polarizzato, noi proponiamo alla società venezuelana di riconciliarci, possiamo pensarla diversamente ma siamo tutti esseri umani che meritano rispetto.

Quale fu la strategia di comunicazione?

Mani bianche. Ci colorammo le mani di bianco per simbolizzare due cose. Prima di tutto che noi non eravamo corrotti, avevamo le mani pulite, non eravamo figli della precedente stagione politica. La base del chavismo è il rigetto del passato, ma noi non veniamo del passato, noi siamo il futuro, io ho ventiquattro anni, Chavez quando arrivò al potere ne aveva quaranta e soprattutto come lui non appartenevamo al passato, condannare un passato corrotto non basta a garantirsi un presente corretto. Noi siamo il futuro del Venezuela e non siamo qui per viverci da “corrotti”. Mani bianche a simboleggiare ciò ma anche il fatto che noi veniamo in pace. Noi veniamo per costruire dialogo, per costruire ponti nel Venezuela poiché questo è un Paese diviso, non solo politicamente ma anche socialmente: povertà, esclusione dalla società, sono fattori che creano due differenti realtà nello stesso Paese.

Durante i giorni delle marce la reazione di Chavez fu di un’iniziale sorpresa, ma dopo il risultato del dicembre 2007 i toni si sono alzati superando il livello di guardia e provocando atti violenti da parte di fanatici chavisti. Com’è la situazione oggi?

Il pericolo per l’incolumità fisica c’è sempre. Sono stato aggredito fisicamente e anche calunniato in pubblico (il riferimento è alla satira apparsa sulla rete di Stato che ritrae Yon come un prezzolato per aver ritirato il Milton Friedman For Advancing Freedom Award consegnatogli dal centro studi statunitense Cato Institute), in una conferenza che stavo tenendo è stato messo un esplosivo sul palcoscenico, sono stato percosso e offeso in ogni modo, ma questa gente è una minoranza, i chavisti radicali sono una minoranza, la maggioranza di quelli che votano per Chavez non sono come quella gente, questo è un Paese pacifico, qui non c’è più stata una guerra da tanto tempo e questa è proprio di una società pacifica, la gente rigetta la violenza, ci possono essere persone che non sono d’accordo con me o che mi odiano ma rigettano comunque l’aggressione fisica come soluzione alle diversità politiche. Sì qualche volta ho avuto paura, qualche volta ho paura, ma sono totalmente convinto che ne valga la pena: io voglio vivere felice nel mio Paese, non voglio andare da nessuna altra parte, voglio essere felice con la mia famiglia qui, credo che sia un mio diritto sperare che questo avvenga nel mio Paese.

Qual è la situazione politica nel Paese dopo le elezioni amministrative dello scorso novembre, molti osservatori ritengono che il sostanziale pareggio potesse portare ad una tregua tra Governo e opposizione.

Credo che il risultato sia stato bilanciato, perché Chavez ha vinto la maggioranza degli Stati, ma l’opposizione, seppure in alcuni casi divisa, ha vinto negli Stati più popolosi e nelle città più importanti, inclusa la capitale; nel voto popolare c’è stato quasi un pareggio, con l’opposizione più avanti seppure di poco, ma anche se il risultato è stato molto bilanciato, è l’opposizione che sta incrementando i consensi, Chavez ha perso spazio, prima controllava tutto, oggi controlla meno Stati e per di più i più importanti sono passati all’opposizione, il gioco non consisteva nel vedere chi vinceva più Stati ma chi avanzava e noi siamo avanzati mentre Chavez è tornato indietro.

Come giudichi la recente svolta comunicata da Chavez che intende far proporre per i primi mesi dell’anno, questa volta dall’Assemblea Nazionale dove ha le maggioranze necessarie, ancora un nuovo referendum per riformare la Costituzione, anche se questa volta il quesito sarà unico e verterà solamente sulla possibilità di ricandidarsi indefinitamente da parte di un Presidente eletto?

E’ un terribile errore, perché il Venezuela dovrebbe prepararsi ad affrontare la crisi economica mondiale in arrivo, come noto il Venezuela è un Paese esportatore di petrolio (terzo produttore al mondo), la nostra economia è quasi interamente basata sul petrolio e quindi sul suo prezzo, perciò la crisi internazionale colpirà duramente la nostra società, perché i mercati petroliferi stanno rallentando e noi vendiamo il petrolio a tre mesi, perciò nel 2009 inoltrato osserveremo i frutti della stagnazione che stiamo vivendo in questi giorni. E’ per questo che Chavez ha bisogno di forzare la sua rielezione ora, perché potrebbe non essere in grado di farlo poi.
Avremo una situazione sociale davvero difficile e la responsabilità di un Governo dovrebbe essere quella di pensare alle soluzioni, di trovare il modo di lenire i danni. Inoltre noi abbiamo già deciso sul quesito che ci viene riproposto. E’ illegittimo costituzionalmente riproporre un medesimo quesito nello stesso periodo legislativo. Ma lo Stato di diritto come noto necessita oltre che di istituzioni democratiche anche dell’indipendenza della magistratura, in Venezuela abbiamo istituzioni democratiche ma non esiste l’indipendenza della magistratura e pertanto non ci sarà alcun Tribunale che alzerà il dito decretando l’illegittimità costituzionale della proposta di Chavez. Voteremo quindi di nuovo, ma io credo nel popolo venezuelano, la gente venezuelana, anche quelli che votano per Chavez, possono volerlo Presidente ma non lo vogliono per tutta la vita, nella storia del Venezuela diversi Presidenti hanno provato a farlo ma sono stati sempre sconfitti, perciò Chavez con questa nuova sfida non affronta solo l’opposizione ma la cultura venezuelana.

Cosa farete voi del movimento studentesco ora?

Noi combatteremo. Abbiamo già iniziato a lavorare sull’organizzazione delle manifestazioni ma le proporremo a tempo debito. E’ vero che la nostra è una società fortemente politicizzata, in Venezuela tutto è politica, politica sociale, ma noi abbiamo bisogno della socializzazione della politica, la gente è stufa di scontri, di ideologia, di sfide elettorali che si succedono da anni, la democrazia non è solo votare, certo votare ma anche l’esercizio delle prerogative e delle responsabilità del Governo.
Io penso che la prossima consultazione referendaria di Febbraio è un grave errore, ma non possiamo fermarci, verrà il momento per riposarsi, ma non è questo, adesso dobbiamo combattere per godere di quel momento nel futuro e dobbiamo vincere perché se vincesse Chavez verrebbe sovvertito il principio alla base della nostra Repubblica. Scegliemmo di essere una Repubblica, l’abbiamo ratificato diverse volte, le Repubbliche sono costituite da persone libere ed eguali, una rivoluzione che si basa sulla rielezione di un singolo Presidente è una Monarchia, abbiamo rigettato questo rischio per secoli, lo rigetteremo ancora.

Qualsiasi sia il risultato del prossimo referendum, si corrono rischi di instabilità e di esplosione di conflitti sociali, da una parte abbiamo Chavez all’ultima chance, dall’altra una società civile che può vedersi costretta al comunismo?

Nella precedente consultazione referendaria si decideva su due diversi modelli si Stato, comunismo e democrazia. In questo caso si decide solamente della rielezione del Presidente, è certamente una questione importante, ma non è la stessa cosa. Io penso che queste elezioni sono più pericolose per Chavez, perché se vince avrà solo ottenuto il diritto a ripresentarsi e non vorrà dire certo che è stato rieletto, ma se perde la sua stagione politica si concluderà incontrovertibilmente nel 2012.
Quale ruolo può ricoprire l’esercito in un eventuale momento di tensione?

L’esercito in questi anni è stato fattore di equilibrio tanto che Chavez ha dovuto formare una propria forza militare fuori della tradizionale catena di comando ma lui è impopolare all’interno degli ambienti militari. Nel centro a maggior densità di militari il PSUV (partito di Chavez) è calato del 25%. Credo che l’esercito sventerebbe qualsiasi tentativo di frodare il voto o di imporre soluzioni che non rispettino il risultato elettorale.
Ciò certamente non basta, dobbiamo batterci. Io non penso che dobbiamo batterci per vincere per paura di Chavez, non credo che sarà possibile per lui di riuscire a trasformare il Venezuela in un Paese comunista, la gente non lo vuole, non è poi ancora molto chiaro cosa sia il suo “socialismo del 21mo secolo”.

Chavez porta ad esempio l’istituzione de le ‘misiones’, istituzioni create nella sua visione di politica assistenziale, quali sono i risultati?

In alcuni casi i risultati sono buoni ma è la sostenibilità del progetto che manca, non è sufficiente. Prendiamo ad esempio la misione Robinson, l’alfabetizzazione delle fasce popolari più indigenti, non si può dire che non sia una cosa buona, ma si può dire che è insufficiente, abbiamo bisogno di un piano nazionale per l’educazione e non di iniziative saltuarie, abbiamo bisogno di creare qualità, di formare le giovani generazioni, non basta alfabetizzare! Abbiamo le risorse per farlo, siamo un Paese in via di sviluppo ma non siamo un Paese povero. Non sono più i tempi della Cuba di Fidel!

In queste missioni viene impiegato personale medico dalla Cuba di Castro.

Sì è qui che vengono impiegati, per i primi due anni i risultati sono stati soddisfacenti per la formazione del nostro personale medico, ma adesso la spinta iniziale si sta perdendo e anche in quelle missioni dove lavora ancora il personale medico cubano ci si chiede dell’utilità della cosa.
Un esempio è quello della misione Barrio Adentro creata per dare assistenza sanitaria ma buona per curarti un raffreddore e poco altro, l’ospedale serve sempre! Non è sbagliato fornire assistenza aggiuntiva, ma non può essere l’unica, le misiones non possono essere il fulcro di una politica del welfare, possono servire a gestire le emergenze ma poi c’è bisogno di una politica nazionale che fornisca servizi al cittadino, che poi questi servizi possano o debbano essere offerti dalla mano pubblica o da quella privata dipende dai punti di vista, ma noi non abbiamo né un sistema pubblico né un sistema privato, quella di Chavez è solo ideologia: la gente avrà sempre bisogno degli ospedali.

Per il movimento studentesco quale dovrebbe essere la strada per uscire dalle pastoie ideologiche e dal clima di scontro continuo?

Credo che sia necessario tornare ai principi. Dobbiamo comprendere che la strada per uscire dalla povertà non passa per il petrolio, passa per il lavoro, l’istruzione e la volontà. C’è bisogno di partecipazione per poter comprendere che non esistono soluzioni facili, una sola persona non può essere la risposta ad un problema sociale, la solidarietà è un valore come lo è quello di dare la possibilità a tutti di raccogliere i risultati del proprio lavoro e della propria forza di volontà. Così nasce la responsabilità individuale ma così nasce anche la responsabilità collettiva.

Nel ringraziarla per la sua disponibilità e per concludere Mr Goicoechea, una domanda personale, privata: che significato ha per lei la parola Libertà?

Avevo un Professore, un Professore molto conosciuto qui da noi, che ci diceva così: non esistono definizioni uguali per tutti della parola libertà, ma ogni essere umano sente la stessa cosa quando ascolta quella parola.












sabato 13 dicembre 2008

No al comunismo in Venezuela

Fine del viaggio, fine del liveblogging, un saluto a tutti gli amici e alle amiche che mi hanno seguito notte e giorno in questa avventura. Roark va a riposare per un po' e il pensiero va a tutti gli studenti - come gli iraniani in questi giorni - che si battono a rischio della vita in difesa della propria dignità di esseri umani, che l'esperienza di Yon Goicoechea faccia riflettere i nostri sulla serietà delle motivazioni che dovrebbe sempre risiedere dietro pubbliche dimostrazioni di protesta. L'intervista su liberal martedì, sul web la trovate su loccidentale.it seguitelo, il reportage sul prossimo numero di Con. A presto

Le case attorno Francoforte

Passare dalla megalopoli sudamericana agli edifici a schiera e alla geometria della rete stradale è abbastanza straniante, ma il fumo che sale dalle ciminiere delle fabbrichette di Francoforte mi tranquillizza. Si prende il volo per Roma.

venerdì 12 dicembre 2008

Si torna a casa


Dopo la nottata di ieri ho fatto il sonno dei giusti.
Crollato!
Eccomi qua, dopo una lauta colazione, qualche scarabocchio e la lettura della mia amata Ayn Rand.
REALITY EXIST
Si torna a casa.

Alla fine Yon


Cosi alla fine ecco Yon.

La nottata e cominciata subito bene con l'autista del taxi che mi ha messo una compilation dei Pretender, oooohhh my looovve, myy darling e mentre sfilavo per le strade folli di Caracas mi sentivo - con questa barba - dentro Carlito's way, Scarface (forse e meglio), non lo so fate un po voi, pero ad un certo punto, non appena ho visto un tizio sul bordo della strada che si gettava in un cassonetto - e la pura verita - e ho compreso di essere "Yes The Great Pretender" ho pensato che questa era la volta buona e quindi eccolo la.

E' stata una conversazione difficile da dimenticare, chi lo dice che nei nostri tempi non ci sono battaglie valide da combattere!?

LA LIBERTA E TUTTO, proprio come nella pubblicita della Subaru (o la Suzuki)


giovedì 11 dicembre 2008

Stanotte es la noche

Incontro rimandato.
L'autista mi ha portato all'Isituto Nacionale de la Iuventute e non all'Istituto Metropolitano de la Iuventute.
In pratica sono stato portato a conferire con i simpatici scagnozzi in camicia rossa, i chavisti!
Ho spiegato che doveva esserci un errore, cercavo un amico...
Cosi il posto era dall'altra parte della citta e quel rintronato dell'autista mi ha fatto beccare una bella tournee per i luoghi del potere del Presidente.
Cosi appuntamento stanotte alle 22 a casa di Yon!
Non lo diciamo.

Preparandosi all'incontro


Alle 16 appuntamento con Yon Goicoechea leader del movimento studentesco venezuelano da lui per l'intervista.
Mattinata passata a risolvere questioni tecniche. Scheda wind con accesso web ancora non attivo. Telecamera rotta. Portatile inutilizzabile perche in venezuela hanno delle prese di corrente perverse e non i riduttori europei.
Fantastico.
Faro tutto a mano sbobbinando dal registratorino (che funziona). Spero di risovere per postare qualche foto.
Il centro di Caracas e vivo e ricco si ricco, sulle montagne una baraccopoli sterminata. La poverta e la ricchezza a qualche isolato di distanza ma questa gente ha voglia di scambio e di sentirsi libera.
Interessante il foyer del Marriott, interessante perche pieno di imprenditori, faccendieri, avventurieri, donnacce e quant'altro, sembra di stare in un film sul periodo prerivoluzionario a Cuba e in effetti il rischio e proprio questo (mi dispiace per gli accenti ma su questa tastiera non si trovano proprio).
Gente simpatica che non parla un H di inglese e m capisce a gesti parlando italiano.
Ho cambiato 50 euro mi hanno tenuto 30 minuti e mi hanno anche preso le impronte digitali, poi dice Maroni!
Nella notte sono stato svegliato due o tre volte da alcune telefonate da Caracas.
Mi sono addormentato ascoltando uno dei mille giuramenti di Chavez.
Il liveblogging continua ove possibile

Caracas


Finalmente a Caracas.
Di questo viaggio oltre le 15 ore non mi dimentichero (su questa tastiera sono introvabili le parole con l'accento) l'insalatina russa che mi ha fatto su e giu per lo stomaco per tutto il viaggio e la simpatia degli ufficiali della dogana.
Esilaranti le rappresentazioni del TIPO. Roba da cinegiornali anni '30. A Telesur c'e solo lui che parla, una cosa mortale. Paradossale al punto che a tratti ti viene da sorridere.
Ah
Qui la retorica del regime si ispira al nostro Vincenzo Visco: sulle pareti dei palazzi e a bordo strada oltre ad innneggiare alla rivoluzione scritte come: CHIEDETE SEMPRE LA FATTURA; PAGATE LOS TRIBUTOS (e come ti sbagli!) e via cosi.
Il liveblogging continua domani ma c'e da risolvere qualche problemino coi cellulari.
Notte

Ancora in aereo

Ascoltato Ok Computer e Pablo Honey -Radiohead; Appetite for destruction - Guns 'n Roses
Letto e riletto il finale de "La Strada"
Tanti giornali
Preparata l'intervista

mercoledì 10 dicembre 2008

Madrid

Scalo e imbarco

In aereo

Accatastato modello viaggi del meschino

Si parte

Alzataccia, trenino, coda al check in; in valigia La fonte meravigliosa (Ayn Rand), La strada (McCarthy), Alabama Song (libro da recensire su Zelda), Anarchia, Stato e Utopia: 26 ore di volo in 3 giorni non sono poche.

martedì 25 novembre 2008

Il Venezuela dopo le elezioni amministrative


“Il popolo ha dimostrato che noi godiamo qui di un sistema democratico”, così, dopo essersi congratulato con l’opposizione, il Presidente venezuelano Hugo Chavez ha commentato l’esito delle amministrative. La tornata elettorale che ha chiamato alle urne più di 17 milioni di persone per eleggere 22 governatori, 328 sindaci e centinaia di consiglieri regionali e municipali, segna però un'altra fase di stallo nel suo progetto per il compimento della rivoluzione “bolivarista” e per tutto il suo disegno socialista.
Chavez infatti proclama la vittoria, il suo partito, il (Psuv) ha vinto in 17 dei 22 Stati, ma l’opposizione ha conquistato due degli Stati chiave più popolosi, Zulia e Miranda, riuscendone a mantenere il controllo ottenuto alle elezioni di quattro anni fa.
Lo Stato di Miranda, confinante con il distretto di Caracas, era il punto chiave della battaglia simbolo della sfida elettorale, quella tra un importante alleato di Chávez, Diosdado Cabello, contro un conosciuto anti-chavista, Henrique Capriles e oltre ad esso l’opposizione ha conquistato almeno altri due Stati: la regione della capitale, il ''Distretto Federale'' e la poltrona di sindaco della città di Caracas, dove la battaglia elettorale era tutta in salita.
Il risultato elettorale era chiamato ad avere riflessi significativi a livello nazionale giacché dopo la sconfitta di Chavez nel referendum costituzionale del dicembre 2007, referendum che avrebbe dovuto consegnargli poteri senza limiti, il Presidente non aveva nascosto l’intenzione di riproporre, sotto altra veste, le proposte più contestate dall’opposizione e bocciate poi dal voto popolare tra cui il provvedimento che gli avrebbe permesso di rimanere al potere anche oltre il termine del presente mandato che spirerà nel 2012.
Se la contesa elettorale doveva misurare i rapporti di forza tra Chavez e l’opposizione, il risultato può essere considerato un pareggio che a ben vedere incoraggia proprio quest’ultima. L’aver perso la municipalità di Caracas obbligherà infatti il Presidente ad una maggiore cautela, pena il possibile e probabile inasprirsi della protesta e tensioni politiche al limite del sostenibile.
Non va dimenticato come proprio Caracas fu nel novembre e nel dicembre del 2007 il palcoscenico per l’esplosione della protesta studentesca, una protesta capace di far salire all’attenzione della popolazione indigena e dei media di tutto il mondo il carattere antidemocratico del regime di Chavez, una protesta in grado di dare all’opposizione un nuova generazione di leader, poi tristemente finiti sotto oscuri atti criminali commessi da sicari dietro cui più di qualcuno ha visto il Presidente nella veste di mandante.
Il periodo antecedente alle elezioni è stato caratterizzato da una tensione più volte uscita fuori controllo. Nelle scorse settimane Chavez aveva minacciato i leader dell’opposizione di arresto e in uno degli Stati chiave aveva annunciato la sua volontà, avesse vinto l’opposizione, di tirare fuori i carri armanti per difendere il suo governo e tutto questo dopo aver avvertito che in caso di vittoria delle forze “counterrevolutionaries” egli non avrebbe esitato a tagliare i fondi alle municipalità che se ne fossero rese protagoniste.
Nella prima parte dell’anno, con modalità discutibili, il controllore generale del Presidente aveva escluso dalle elezioni centinaia di candidati, per la maggior parte dell’opposizione, con accuse di corruzione oppure opponendo irregolarità amministrative, esclusione che aveva finito per interessare un serio candidato alla vittoria nella municipalità di Caracas e il candidato alla poltrona di Governatore dello Stato di Miranda, naturalmente entrambi dell’opposizione.
A simbolo di questa stagione della tensione nella politica venezuelana ha finito per assurgere il giovane dissidente dell’università cattolica Yon Goicoechea, protagonista della rivolta studentesca liberale e non violenta del 2007, sottoposto lui e la sua famiglia a pressioni, un discredito mediatico che gli è valso una caricatura fumettistica sulla TV di Stato come “traditore” per aver incassato il premio Milton Friedman “For Advancing Freedom” di $500.000 dal Cato Institute ed a seguire minacce per la sua incolumità fisica.
I complimenti di Chavez all’opposizione suonano quindi, nel migliore dei casi, obbligati e frutto di una debolezza politica che cresce dopo il recente abbandono della coalizione di governo da parte di una formazione di sinistra. A fallire quindi è anche il suo disegno di mobilitare il popolo avverso alle forze da lui definite “counterrevolutionaries”, divenendo a questo punto pressoché inevitabile per il perseguimento del suo progetto un colpo di mano ovvero ad un appeasment e quindi alla rinuncia che però difficilmente si addicono al personaggio.
Ma da domani, il primo ostacolo che il Presidente si troverà di fronte sarà quello di una opposizione che necessariamente avrà ritrovato la sua unità anti-governativa e con una maggiore capacità mediatica e di relazioni necessariamente connesse alla presa della poltrona di sindaco di Caracas, una opposizione sempre più attenta a vigilare contro un eventuale colpo di mano, di cui sino ad ora notoriamente ha assurto alla funzione di garante una importante fetta dell’esercito.

Giampiero Ricci

mercoledì 12 novembre 2008

Bush 2008



Quest'uomo è un Eroe: ha tentato di votare G.W. per la terza volta!

venerdì 7 novembre 2008

Disonestà intellettuale senza confini



ROMA - "In Italia il figlio di un immigrato Keniota sarebbe ancora a fare la fila per il permesso di soggiorno. In America invece diventa presidente". (Agr)



Il Re dei paradossi adesso si propone sul panorama politico nazionale come il riformatore.

Il principale rappresentante del filone politico culturale che nel recente passato ha costituito il collante tra il conservatorismo intransigente del più recalcitrante sindacato nazionale, quella CGIL che si oppone in tutti i modi alla mutazione genetica della scuola e dell'università da "stipendificio" a luogo di formazione, adesso viene a dare lezioni di americanismo al paese!

E già caro Presidente D'Alema perché "tutto è possibile" - come di ce Obama - negli Stati Uniti perché lì esiste un sistema scolastico, di College e universitario che sa fondere sapientemente pubblico e privato in nome del merito: si chiama possibilità di scegliere, ovvero LIBERTA'.
Una cosa che nel nostro Paese è negata principalmente dalla capacità di mobilitazione proprio della CGIL, il cui azionista di maggioranza è il suo partito, il PD.
Incredibile.

Adesso conosciamo qualcosa di più sulla sostanza del Partito Democratico: la simpiatia di Dario Franceschini, la disonestà intellettuale di Massimo D'Alema, mixate con il cerchiobottismo veltroniano.
Non male.

giovedì 6 novembre 2008

La fine di un epoca



Finisce così un epoca, tra le lacrime dei cronisti della CNN che annunciano commossi la vittoria di Obama, il riconoscimento bipartisan di Mc Cain, il saluto istituzionale di G.W. Bush.


Una storia iniziata nei pionieristici e visionari anni '60 di Barry Goldwater e degli albori del fusionismo, quando uomini come W.F. Buckley fondando giornali come il National Review attorno alle parole d'ordine "no al collettivismo", "no alla secolarizzazione", davano il là alla riscossa del mondo conservatore contro il dominio culturale democratico, proprio nel maggiore momentum di Lyndon Johnson.
Allora l'asinello imperversava per il paese a stelle e strisce in modo simile a quanto sin a ieri è stato per il Grand Old Party dell'era di G.W. Bush.

Si consegna ai libri anche una recente stagione della politica americana e del partito dell'elefantino durante la quale qualcuno aveva creduto di riuscire a tenere in vita la spinta rivoluzionaria degli anni del reaganismo attraverso un coerente impianto ideologico "post-imperialista".

Non è stato così.

La visione NeoCon di una Repubblica che lentamente si faceva Impero controllando la periferia grazie alla sua deterrenza militare e al dollaro debole è crollata più che per il peso del dissenso all'invasione irachena o per il dissolversi delle banche d'affari americane, per l'impossibilità del sistema economico reale americano di "fare da solo", di reggere il peso della leadership globale unicamente sulle proprie spalle.

Solamente il 10% dei votanti, a questo turno delle presidenziali, ha pensato all'Iraq come primo motivo nella scelta elettorale, per il 62% era la questione economica il primo issue dell'agenda.

La società americana, schiacciata nella morsa del crescente costo del petrolio (sceso solo di recente a livelli ragionevoli), nell'impossibilità di continuare a tenere il dollaro così debole per trainare esportazioni e l'importazione di utili in euro (pena la nascita della moneta unica dei petrodollari nel golfo persico e la crescente disaffezione nei confronti del dollaro come moneta di riserva nel circuito internazionale delle valute) è così arrivata al redde rationem.
Il brusco risveglio dalla sogno di un'economia che si voleva per definizione in crescita sempre oltre il 4% consegna gli USA alla presa di coscienza della impossibilità di riuscire a sostenere un debito pubblico che, al di là della spesa militare, copre salti nel buio costati miliardi di dollari, dollari finiti bruciati in nome di un "diritto alla casa" per tutti, coperto e garantito da aziende parastatali oggi tristemente note in tutto il mondo, come Fanny Mae e Freddie Mac, costituite per garantire accessibilità di credito anche a chi non doveva accedervi.

Per i democratici sarà piuttosto semplice la scelta. Un disimpegno sullo scacchiere internazionale mascherato da concessioni multilateraliste e "storiche" aperture (leggi Iran, Cuba e Venezuela) per alleggerire il costo della presenza militare e di intelligence americana nel mondo, oltre che un massiccio intervento fiscale e statale per continuare nel solco della nuova era di New Deal roosveltiano paradossalmente spalancata proprio dal Presidente Bush avallando il Bailout del Segretario di Stato Robert Paulson.
Per la dirigenza politica del GOP non basterà probabilmente la grinta della Sarah Palin o il recupero di Rudy Giuliani a sciogliere il groviglio di nodi che ingessano il dialogo tra le quattro anime del partito.
I libertarians hanno assistito negli ultimi anni ad un continuo arretramento dalla piattaforma liberista con cui era stato formato il primo gabinetto di G.W. Bush, i nazionalisti non hanno potuto avere la riforma dell'immigrazione che attendevano ed hanno dovuto assistere al risorgere della potenza russa senza che lo Zio Sam potesse muovere dito, i Neo Con sono costretti a riposizionare la loro visione del mondo giacché il paese ha dimostrato di non volerla seguire, la Christian Coalition è certamente l'anima più in salute ma la sua visione del GOP che il leader Huckabee ha mostrato nelle primarie spaventa la base per ricordare troppo da vicino un idea di Repubblican Party alla CDU tedesca.
Nodi non di poco conto che necessitano passaggi lunghi, lunghi probabilmente almeno una generazione, un tempo in cui il paese e il mondo intero saranno lì a verificare le concrete conseguenze del "Change" che Barack Obama ha promesso al mondo.

Ma Obama è italiano?

La domanda è bizzarra ma da quanto si legge nelle dichiarazioni dei nostri politici sembra che alla fine il Presidente USA agisca al fianco dell'opposizione di questo Paese.
Grandi feste, proclami, rivendicazioni di ideali condivisi. Definire tutto questo provincialismo è fare un complimento ad una parte della politica evidentemente con un'identità molto debole che ha bisogno di guardare altrove per darsi un significato invece di guardarsi allo specchio.
Non tralasciamo il fatto che il neo Presidente Obama sui temi etici è molto distante da quel Partito Democratico che lo continua a vedere come lo specchio di quel cambiamento che la compagine di Veltroni pensa di aver portato in Italia.

mercoledì 5 novembre 2008

Ohio

Mc Cain avanti negli exit poll dell'Ohio.
Che mi ricordi nessun Presidente è stato eletto senza aver preso l'Ohio.
Mc Cain è avanti anche in Indiana ma viene dato indietro in Virginia.

martedì 4 novembre 2008

Obama Santo Subito

Su Sky ad America 2008 l'inviato nel paese keniota del padre di Obama si giura che se lui vincerà si porrà fine alle violenze tribali

Effetto Bradley

Rischi di sollevazioni popolari in Ohio. Qualunque sia il risultato. Almeno quì il voto razziale pare essere stato sottostimato.
Mc Cain chiede una proroga dei termini per il voto in Virginia, viceversa avvocati avvocati avvocati e quindi voto non definito: pare la macchina elettorale sia andata in tilt.
C'è un sondaggio che da Mc Cain avanti anche il Pennsylvania di dodici punti! Dubbi.

Don Imus in collegamento sulla FOX


Il controverso presentatore radiofonico già al centro di polemiche e sanzionato con la sospensione della sua trasmissione per una serie di controversi commenti a sfondo razziale ha appena ribadito come non vi sia modo di sottovalutare il valore storico di queste elezioni. L'atmosfera si scalda.

La lunga notte americana


La tornata elettorale americana del 2008 inizia con la FOX che parla di intimidazioni da parte delle Black Panthers in Philadelphia e notizie di diffusi problemi nella macchina elettorale un po' per tutto il Paese.
Un buon inizio ? Potrebbe portare bene.
Certo bisognerà vedere i primi dati sull'affluenza alle urne...chi l'ha detto che sarebbe una buona notizia per Obama una grande affluenza alle urne...Roark vuole vederli gli Stati centrali dell'Unione andare in massa al seggio per votare pro Obama...se vince (e con ogni probabilità Barack vince) non sarà per l'affluenza alle urne.

sabato 1 novembre 2008

venerdì 31 ottobre 2008

Horror pensiero



A proposito dei film già visti di questi giorni...

mercoledì 22 ottobre 2008

Ogni Voce che resiste di Roberto Saviano


La lettera di Saviano apparsa su la Repubblica del 22/10/2008 da quasi l'idea di un progresso civile nel nostro Paese, Roark ne prende atto.

"GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l'appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.

Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev'essere vista disgiunta dall'operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall'impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata. Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine - i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano - possano essere finalmente arrestati.

Grazie all'opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.

Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto.

Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d'Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne. Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.

Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po' meno sole, un po' meno invisibili e dimenticate.
Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi.

Grazie a chi mi ha difeso dall'accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.

Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.

Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell'informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.

Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti.
Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante. Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.

Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.

Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe. Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.

E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo.

Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi. Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro. E che paese non è più - dopo questa esperienza - un'entità geografica, ma che il mio paese è quell'insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie."


(http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/cronaca/camorra-4/saviano-ringrazia/saviano-ringrazia.html)

giovedì 16 ottobre 2008

Perché il piano europeo funziona e quello americano no



Se volete sapere perché il piano anti-crisi dei mercati finanziari regge in Europa e non regge negli States o in Asia dovete fare uno sforzo.

Dovete mettervi alle spalle tutti gli entusiasmi dopo la ripresa delle borse dell'altro ieri seguite all'annuncio del piano europeo, dovete dimenticare i trionfalismi corporativisti che hanno inneggiato al sano intervento statalista contro l'abominio della deregulation.

Perché dovreste farlo?

Roark vi invita ad interrogarvi sul perché un intervento pubblico senza contorni ben definiti (quello europeo) sia visto con un occhio migliore di un altro ben più massiccio ed esplicito (quello americano da $700mld). Il motivo è molto semplice.

Perché di esso non c'è bisogno.

Quello che i mercati hanno apprezzato dell'intervento europeo è la "garanzia" statale (eventuale) degli affidamenti interbancari (sui soldi che le banche si prestano le une verso le altre), garanzia che ha tranquillizzato gli attori del mercato, sbloccando l'ingessatura del sistema europeo e permettendo comunque di limitare le perdite anche all'annuncio del risultato sugli indici di oggi sull'economia USA che sottolineano una marcata recessione.

Cosa continuano a fare invece gli States? Soldi. Compra tutti i bad assets in giro il Governo USA. Compra tutto. Ma quanto tutto? A questo punto visto che i mercati non hanno fiducia forse non basta. E' quello che ha detto il primo ministro giapponese, leccandosi le ferite dopo che la borsa nipponica la notte scorsa ha perso oltre l'11%.

Allora che facciamo. Altri soldi? Altro debito?

Dietro questa inedia americana a garantire il mercato interbancario si annida la ragione della crisi. Se non se la sentono di garantire loro, allora perché noi operatori non dobbiamo vendere?

La crisi USA ormai morde l'economia reale. Le companies che fanno business nel campo delle carte di credito sono attese alla prossima svolta. Il muro è dietro l'angolo.

Serve un pilota che governi la macchina al più presto.

martedì 7 ottobre 2008

Complimenti per la trasmissione


Quando da un anno a questa parte, da mesi a questa parte e sino a qualche giorno fa, Roark e la masnada dei liberisti brutti e cattivi avvertivano che la crisi dei mercati, non essendo una crisi sui consumi o sul valore degli investimenti, bensì sulla fiducia interbancaria, cioé sulla disponibilità delle banche d'affari e del sistema finanziario americano di prestarsi denaro a vicenda, non doveva essere affrontata mettendo soldi buoni su soldi cattivi, ci si urlava contro dandoci degli integralisti.

Quando ci si batteva per far comprendere che contro questa ingessatura del sistema finanziario, dovuta in massima parte a quella sfiducia, la pioggia di soldi o l'entrata in tackle dello Stato a nulla sarebbe valso se non a gettare ulteriore polvere nell'arena, disorientando ancora di più il toro, i media di tutto il mondo plaudevano alla svolta sovietica del piano Paulson.

Il Walterone nazionale ancora ieri urlava che è colpa della destra mondiale, della deregulation, dimenticando che gran parte delle colpe del crack sui mutui vanno ricercate nella gestione di Fannie Mae e Freddie Mac, due agenzie per i mutui (quasi il 40% della raccolta U.S.A.) esempio pressoché unico nel paese a stelle e strisce di aziende dalla natura parastatale (50% del capitale in mano pubblica), per le quali, come dire, è difficile guardando alla loro gestione poter sostenere cavalcassero l'onda del capitalismo selvaggio, semmai cavalcavano quella della pozzanghera socialista.

Ma tant'è eccoci quà con le borse che crollano come non mai, anche più che dopo l'11/9, mai così dal venerdì nero del 1987 e ciò nonostante il piano Paulson e con la consapevolezza che la marea inumana di soldi buttati andrà quindi a rimpinguare la crescita dell'inflazione per un futuro certo di deflazione: crescita negativa (deindustrializzazione) e diminuzione radicale del potere d'acquisto dei salari per effetto dell'inflazione fuori controllo.

Complimenti per la trasmissione quindi.

Ma a questo punto come se ne esce?

Bè per uscirne forse si è ancora in tempo a seguire le orme del piano degli economisti di Chicago: trasformare l'intervento a pioggia di liquidi di provenienza del Tesoro in fondi bloccati a garanzia di un maxi aumento di capitale da raccogliere tra i cittadini (sì come l'oro alla patria) in cambio di azioni garantite degli istituti travolti dalla crisi dei mercati subprime.

Un nuovo statuto per la FED, più sul modello della BCE che preveda meno discrezionalità d'intervento (Roark sarebbe per abolirla la FED), contratti derivati tipici (previsti nel regolamento della SEC - anche la SEC Roark la abolirebbe) per le contrattazioni nei mercati regolamentati, processi per accertare le responsabilità di chi ha occultato e dissimulato perdite, caccia ai bancarottieri.

Viceversa così continuando (anche con lo stanziamento di soldi statali in non meglio precisati fondi europei), quello che potrà accadere è quanto è già accaduto ma traslato sull'economia reale e in più il passaggio del cerino dalle assicurazioni alle carte di credito, naturale corollario della spirale deflattiva, gli Stati imporvvisamente proprietari di interessi economici loro sì, alla fine, ultimi depositari del cerino.

Interessi economici che per definizione confliggono sopra risorse che ancora per definizione scarseggiano, così generandosi - sempre per definizione - il più classico dei cliché storicisti: la tensione tra Stati, invece che tra Corporation.

Stati messi all'angolo, con magari poco da perdere e una deterrenza militare da non buttare, il tutto per una trasmissione assolutamente da perdere e che si prevede esplosiva.

venerdì 3 ottobre 2008

martedì 30 settembre 2008

Massimo Gaggi e gli economisti di Chicago


L'articolo con il quale Massimo Gaggi descrive sulla edizione mattutina del Corriere della Sera l'intervento degli economisti di Chicago sul perché fosse necessario dire NO al 'Bailout' del Segretario del Tesoro Paulson, è uno dei pezzi giornalistici più faziosi che sia dato ricordare nel giornalismo che conta.
Gli economisti di Chicago sarebbero stati la sponda ideologica per il disastro che è seguito alla bocciatura del piano Paulson, causando i risultati della seduta di ieri che hanno visto cedere Wall Street il 7% SP (perdendo 777,68 punti, record negativo nella storia) e l'8,8% ND, il tutto dopo mesi di altalena (più bassi che alti) e con avvisaglie che la crisi stia arrivando alla fase ultimativa: quella del passggio dalle banche d'affari alle carte di credito.
Loro i liberisti brutti e cattivi hanno osato sostenere che il fatto che lo Stato nazionalizzasse una parte della propria economia grande più o meno quanto il PIL dei Paesi Bassi, non potesse essere ridotto ad in intervento passeggero: seguendo la ricetta Paulson l'economia americana avrebbe intrapreso la china delle economie miste europee.
Logico che una prospettiva del genere interessi a tanti editorialisti più o meno economisti come Gaggi, ma purtroppo per lui - anche se il pericolo non è svanito - gli USA sono una repubblica vera e la festa è rimandata sine die (giovedì nuova sedura alla Camera...anche se Roark spera sia per sempre).
Cosa avevano proposto gli economisti di Chicago al posto della follia socialista di Paulson?
Bene poiché è evidente che il problema finanziario degli USA è il corollario di una gestione dissennata della leva finanziaria, la cui conseguenza più grave, a parità di valore degli investimenti ed economici, è rappresentata dalla pressoché annichilita fiducia interbancaria (nessuna banca presta più un $ ad altra banca), il sistema è andato in collasso di liquidità. Ma la liquidità iniettata dissennatamente in questi mesi dalle Banche centrali di tutto il mondo e che gente come Paulson, Bernanke & Company vuole continuare ad iniettare, non è andata a ristabilire un clima di fiducia, No: è andata ad ingrassare la pancia della bestia (leggi l'inflazione).
Così ora anche l'economia reale viene falcidiata dall'inflazione, quando quella finanziaria è totalmente ingessata. E naturalmente tutto questo che ne dite: può che migliorare il clima di fiducia? NO.
Gli economisti di Chicago hanno detto questo: se tirate fuori quei soldi dalle tasche dei contribuenti, l'economia reale andrà inesorabilmente in recessione ora che è già provata dalla crescita dell'inflazione e dalla stretta sul credito, il risultato sarà un disastro, da cui il paese a stelle e strisce si sveglierà socialista.
Se invece quei soldi le banche e il paese li chiedono al mercato, ai cittadini, vendendo in cambio azioni magari sotto garanzia del Tesoro, si immetterà ugualmente liquidità ma questa venendo dal basso e non da una decisione presa a Washington, verrà letta dai mercati finanziari come un gesto di fiducia del paese profondo nei confronti della sua economia, ancora la più forte del pianeta, l'effetto non potrà che essere quello di restituire nel medio termine la fiducia necessaria per ricostruire.
Inutile dire che Massimo Gaggi non è convinto. Ma questa è solo una garanzia in più sulla bontà del piano.

giovedì 18 settembre 2008

Anyone may arrange his affairs so that his taxes shall be as low as possible


Judge Learned Hand (1872-1961), U. S. Court of Appeals

in the case of Gregory v. Helvering 69 F.2d 809, 810 (2d Cir. 1934), aff'd, 293 U.S. 465, 55 S.Ct. 266, 79 L.Ed. 596 (1935)


"Anyone may arrange his affairs so that his taxes shall be as low as possible; he is not bound to choose that pattern which best pays thetreasury. There is not even a patriotic duty to increase one's taxes.Over and over again the Courts have said that there is nothing sinisterin so arranging affairs as to keep taxes as low as possible. Everyonedoes it, rich and poor alike and all do right, for nobody owes anypublic duty to pay more than the law demands."

mercoledì 17 settembre 2008

La vasta cospirazione di inadatti


Possiamo dirci ciò che vogliamo su quanto accaduto stamane in USA, ma la nazionalizzazione di AIG non è solamente l'ennesimo take over da parte della FED di un impresa privata alla bancarotta, è molto di più.

Come scrive il New York Times stiamo assistendo alla nazionalizzazione più importante della Storia degli Stati Uniti d'America ed è difficile per Roark essere dalla parte di chi sostiene sia un male minore sulla strada della riforma: quale riforma? Continuando di questo passo il senso della riforma che gli USA si daranno rischia di assomigliare maledettamente a quello del Venezuela di Chavez!

Inoltre perché le major del mercato finanziario americano dovrebbero essere interessate alla realizzazione di una riforma condivisa se sanno in partenza che raggiungendo una massa critica preoccupante per la FED (come nel caso di Fanni Mae eFreddy Mac o di AIG e Bear Stearns) poi tanto arriva il Settimo Cavalleggeri e mette tutto a posto?

La decisione di Governo e FED va ancora una volta nel senso sbagliato perché non contribuisce a riportare la fiducia nel mercato interbancario scosso dalle conseguenze del Credit Crunch dell'agosto di un anno fa, anzi così facendo mina ancor di più la fiducia degli istituti l'uno verso l'altro giacché nessuno può più essere sicuro dei conti dell'altro al punto da fargli credito.

La saga dei fallimenti fosse già iniziata con Bear Stearns oggi non ci troveremmo con l'invasione della crisi finanziaria nel campo assicurativo e - come si vocifera - a breve nel campo delle carte di credito. La normativa fallimentare avrebbe rimesso in campo i mezzi di produzione al valore di mercato e sarebbero stati penalizzati gli investitori non avveduti.

Quando saremo giunti lì, quando la crisi finanziaria si sarà divorata i consumi già messi a dura prova dall'inflazione, il buon Bernanke finalmente avrà raggiunto l'obiettivo e avremo la nostra Big Depression.

C'è da chiedersi se no si sia al cospetto di una vasta cospirazione di inadatti.

lunedì 15 settembre 2008

Mourning David Foster Wallace


Scompare suicida in Claremont, California, David Foster Wallace, 46 anni, uno dei talenti più luminosi che negli ultimi venti anni la letteratura contemporanea abbia espresso.
Messosi in luce sul finire del revival letterario degli anni ’90 che accompagnò l’era clintoniana, Wallace era nato ad Ithaca, Stato di New York, nel 1962 e vissuto ad Urbana, Illinois. Figlio di un allievo di Irvin Malcom, biografo di L. Wittgenstein, cominciò a scrivere il suo primo romanzo e i racconti che composero poi la raccolta “La ragazza dai capelli strani”, mentre era sulle orme del padre e studiava filosofia. (Continua su l'Occidentale.it) http://www.loccidentale.it/articolo/ricci.0057833

giovedì 11 settembre 2008

9/11 Tribute


Per noi europei la retorica è qual cosa di cui vergognarsi.
La retorica ti obbliga ad esplicitare valori, a credere.
E' difficile per noi giustificarla intellettualmente.
Anche se serve a definire i contorni di un simbolo.
Democrazia, libertà sono valori dati, acquisiti, che bisogno c'è di ricordarlo?
Le due altissime torri in fiamme stanno lì per questo.

Divertimento bipartisan

'The Man' e i suoi dubbi religiosi

martedì 2 settembre 2008

Altro che P2, democrazia diretta


"Non ci vuole Mandrake -spiega Di Pietro- per sapere cosa c'e' da fare in materia di giustizia. Ci vogliono piu' soldi per la sicurezza, per le forze di polizia e per le forze dell'ordine, ci vuole un insieme di provvedimenti ordinari per fare in modo che ci sia piu' personale, per fare in modo che si accorcino i tempi per fare giustizia, che si riducano i gradi di giudizio, insomma c'e' da fare tutto meno che quello che vogliono fare". Roma, 2 set. Adnkronos


Ogni volta che ascolta o legge qualcosa di Di Pietro, a Roark vengono i brividi.

Ancora una volta il pretoriano del giustizialismo aprioristico da del piduista a chi cerca di rendere chiaro nell'ordinamento il principio costituzionale del giusto processo, a questo serve la separazione delle carriere: non si può passare da avvocato della accusa a organo giudicante come se si trattasse semplicemente di una diversa mansione.

Per Roark bisognerebbe fare di più ma questo è già un passo avanti.

Roark è con la Lega: democrazia diretta, l'elezione dei Pubblici Ministeri.

Di Pietro, che c'azzecc la P2?

mercoledì 25 giugno 2008

Il "Buffo" di Walter


Andiamo con i fatti.
Il neo sindaco di Roma Gianni Alemanno commissiona alla Ragioneria Generale dello Stato una revisione sui conti del Comune.
Si scopre che il debito del Comune di Roma è di 8,1 miliardi, 6,8 ereditati già dagli anni 80.
“Ma si va verso quota 9,7″ dice Alemanno.
Già, 1,4 miliardi li deve al Comune la Regione Lazio, poi ci sono altre mancate entrate per 0,7 miliardi.
Il Walterone nazionale, il nostro democrats, dice che si tratta di una voragine “accumulata durante decenni e comunque inferiore, nel dato pro-capite, al debito dei cittadini milanesi: 2.480 euro contro i 2.540 per romano”.
Bella forza! Qualcuno spieghi a Walter che il Comune di Milano per cittadini residenti consta di un numero ben inferiore a quello di Roma!
L'eredità Rutelli-Veltroni peserebbe presso a poco 1 miliardo di "buffi".
Hai voglia a dire che il debito si è creato in gran parte con i finanziamenti per la metro B1, che si tratta non di un buco ma di uno "stock di debito costituito da titoli e mutui che il Comune contrae", la traduzione pratica resta sempre la stessa: BUFFI.
"Buffo" è anche pensare che noi credevamo di dover avere a che fare con un Partito Democratico dall'ispirazione roosveltiana, macché questo è Cirino Pomicino.

martedì 17 giugno 2008

Liberali o Conservatori


E va bene. Sembra chiaro che la luna di miele del Paese con il Governo sia destinata a perdurare.
Ma Roark osserva e aspetta.
Aspetta soprattutto il documento di programmazione economica per capire dove si vuole andare a parare.
Ma nel frattempo con 2.500 effettivi dell'esercito nelle strade per i prossimi mesi, Roark non può non rilevare come il parossismo attorno alla questione sicurezza ne abbia di gran lunga superato la soglia.
Ad interventi mirati si preferisce il gesto ad effetto di stampo conservatore. Un risultato che sarà senza dubbio inconcludente e capace di creare tensioni all'interno dei corpi dello Stato.
E il tutto per una sola necessità di propaganda: lo Stato c'è.

Roark rileva un paradosso: durante la Convention di Assago, un Fini che doveva apparire politicamente sconfitto per aver dovuto prendere atto del successo della linea politica Berlusconi con l'adesione al PDL, da quel palco parlava di un partito, il nuovo PDL, capace di portare nel Paese una rivoluzione conservatrice. Chi ascoltava pensava alla infiorettatura di una marcia indietro. E poi Berlusconi non aveva sempre parlato di rivoluzione liberale...o no? Non è la stessa cosa.

Oggi osserviamo che pur avendo perso politicamente quella partita - quella del partito - la destra sociale di Fini sembra vincere quella della politica profonda, quella nazionale, quella dell'ispirazione all'azione di Governo, giacché Tremonti si propone come un consevatore di stampo keynesiano, Maroni lotta per imporre lo Stato di diritto addirittura con l'esercito e La Russa, ritrosamente lo concede.

Per Roark se conservatorismo vuol dire lotta alla collettivizzazione, la luna di miele può continuare, se conservatorismo vuol dire invece socialismo da destra, nazional-populismo che si pasce del valore e dell'immagine dei corpi dello Stato, va meno bene, anzi va male.

La luna di miele può continuare ancora. Ma documento di programmazione economica permettendo.

giovedì 5 giugno 2008

Il-nuovo-che-avanza-Obama


E così è diventato ufficiale l'inevitabile è Obama il canditato democratico.

Naturalmente nella sua candidatura non c'è nulla di nuovo.
Obama infatti di afroamericano ha solo i tratti somatici, appartiene invece molto di più a quel populismo di scuola democratica di cui è stato limpido rappresentante quel Jimmy Carter i cui disastri in politica internazionale ancora oggi gli Stati Uniti pagano, non da ultimo la fallita interposizione alla rivoluzione islamica in terra persiana e il goffo blitz rimasto alla storia.

Sarà un caso ma la prima uscita di Obama dal momento che è diventato evidente il suo successo nelle primarie del partito dell'asinello è stata proprio "Cancellerò la minaccia iraniana": quasi un deja vù.
I più ironici si chiedono se la minaccia non venga fatta scomparire al di là delle chiacchere (in cui Obama è un maestro) con un sonoro appeasement.

Ma tant'è la capacità del candidato democratico di gettare fumo negli occhi in questa congiuntura economica negli USA e in uno scontro frontale con un uomo come Mc Cain che viene da un'altra generazione, rischia di diventare decisiva.
Secondo una rilevazione del Pew Research Center dell'aprile scorso, i punti di vantaggio su John McCain, per il neo-candidato democratico alle prossime presidenziali erano ben 5 (47%-42%).
Per ABC News/Washington Post, rilevazione di Maggio, i punti di distanza non sono più 5, ma 6 (51%-45%).
Per Gallup, sempre rilevazione di Maggio, i punti potrebbero diventare 4 (43%-47%). E...d'accordo c'è chi sostiene che ricompattando il GOP, con l'aiuto di un G.W.Bush seppure ai minimi di gradimento, il senatore dell'Arizona avrebbe una chance, ma appunto di chance si tratta e nulla più per una candidatura eishenaweriana capitata in un fase della storia americana che resta un periodo di guerra ma un periodo di guerra che una metà del popolo americano si rifiuta o non ha compreso essere tale.
In realtà le prossime elezioni americane rischiano per davvero di essere paradigmatiche per il futuro degli Stati Uniti e dell'alleanza occidentale più di quanto non sia dato pensare.

Nel votare Obama il paese a stelle e strisce voterebbe una tregua con il terrorismo, un parziale disimpegno sugli scenari internazionali venduto per realismo, soluzioni per risolvere la crisi economica sul modello delle socialdemocrazie europee - questa la ricetta innovativa de il-nuovo-che-avanza-Obama - che farebbero tornare indietro il paese in modo drammatico.

In pratica il primo passo nella direzione sbagliata da trenta anni a questa parte.
Ecco cosa rappresenta il-nuovo-che-avanza-Obama.

mercoledì 4 giugno 2008

Siamo alle solite un altro "articolo 18"


D'accordo la Lega e il suo pieno di voti.
D'accordo il lassismo del precedente governo.
Giusto che venga mandato un segnale di presenza dello Stato e delle forze dell'ordine.
Ok, va bene anche che abbiamo un problema di immigrazione clandestina serio (del resto abbiamo un po' di coste da controllare...).
Il problema esiste. Dobbiamo affrontarlo.
Ma se il nuovo governo Berlusconi ha intenzione di intavolare un'altra battaglia contro i mulini a vento rendendo il dibattito sul reato di clandestinità una battaglia ideologica, come in passato fu per l'art. 18...allora c'è da preoccuparsi.
Con il mare di riforme economiche di cui necessita il Paese scopriamo la vera emergenza non sia il taglio radicale della spesa per dar fiato agli investimenti e ad una finanza pubblica che danza pericolosamente sull'orlo della bancarotta ovvero l'economia reale arrivata alla canna del gas: no, il problema è il reato di clandestinità.
Roark prova una simpatia viscerale per gli autonomisti e per gente come Umberto Bossi o Maroni (Calderoli è difficile ragazzi...ci sto provando), ma la tendenza dei migliori leghisti (Umberto Bossi e Maroni) va detto, troppo spesso è volta ad ideologizzare, a fare nell'azione di governo - per lo meno in quello del Paese - operazioni di acquisizione di consenso e poco importa poi il risultato. Sia chiaro, un po' tutti si comportano così quando sono a Palazzo Chigi o sullo scranno regionale e comunale, ma errare è umano, perseverare diabolico.
Eppoi a Roark da un po' fastidio tutto questo atteggiamento occhiuto che è montato sul problema sicurezza: la sicurezza, la sicurezza, la sicurezza...basta!
Pragmatismo prima di tutto.
C'è il codice penale e la certezza della pena non si ristabilisce introducendo nuovi reati, nuovi ingolfamenti giudiziari, ritardi, anni buttati e riforme da riformare senza che siano mai entrate in vigore.
Se c'è da espellere uno sbandato che venga espulso, punto.
Ma da qui a trasformare mediaticamente l'Italia nel Bronx per finire a fare una figura Heideriana, questo no!
Il Governo se deve proprio servire a qualcosa certamente serve alla tutela della vita dei cittadini che lo sovvenzionano lautamente e per essa deve impegnarsi, ma deve impegnarsi in egual modo all'espansione della sfera della libertà individuale che in Italia è atavicamente mortificata e ciò per riconsegnare al futuro della penisola, nuovamente una prospettiva di benessere.

E' per tali ragioni che al Governo c'è questa maggioranza. Non per abbaiare alla luna.

venerdì 30 maggio 2008

Prepararsi al disastro


Sul sito del Cato Institute, Anna Schwartz, co-autore con Milton Friedman di A Monetary History of the United States, 1867-1963 che valse il Nobel al grande economista, ci spiega cosa aspettarsi dalle politiche monetarie della FED di Bernanke.
La summa di tali aspettative è stata riportata da Roark nel suo post, esse possono rappresentarsi ne più ne meno come l'overture ad una bancarotta.

D'altronde la politica monetaria di ingerenza del nuovo Governatore della Banca centrale Americana, la sua continua entrata a gambe tese nel mercato borsistico e finanziario internazionale, fino a spingersi ad un improbabile ed indiretto salvataggio di banche d'investimento - come accadde mesi fa con la Bear Sterns - difficilmente può essere considerata innovativa e dagli effetti positivi, visto che il mercato del credito bancario statunitense e non, sembra lontano dal volersi acquetare.

Il nuovo Governatore è al lavoro da due anni e se così fosse non dovrebberoo esserci incertezze e la scarsa fiducia che si osserva invece nei mercati. Non dovrebbe esservi infine la necessità di salvare Società che non dovrebbero essere salvate: questa è una cosa che può capitare in Europa o in Italia, ma non negli USA; si tratta pur sempre di Società insolventi e non dovrebbero raggiungere l'attenzione della FED.

Questa attitudune ad ergersi a "cavaliere bianco" della FED crea problemi di ordine etico e distorce l'assetto dei mercati finanziari impedendo al sistema di fare pulizia e di promuovere le Società più virtuose.

Se puoi acquisire ogni tipo di assets, finiscono per non esserci più criteri universalmente riconosciuti per giudicare quali sono veri assets e quali no. Quali produrranno ragionevomente un ritorno economico favorevole agli investitori e quali no.
La Fed così comportandosi manda ai mercati un messaggio secondo il quale gli assets che la Fed compra sono tutti sufficientemente buoni per entrare nel proprio portafoglio e libera dall'errore investitori che hanno fatto scelte sbagliate credendo in management nella migliore delle ipotesi incapaci.

In questo modo non ci sono penalità per scelte sbagliate.

Questa non è la strada per un mercato del credito migliore, per un'economia in salute; questa è la strada per un'economia che può facilemente essere trascinata verso il disastro.

venerdì 18 aprile 2008

Così resiste il "bushismo"


Che piaccia o meno, la dottrina Bush resta, a partire dalla fine della Guerra Fredda, il tentativo diplomatico di maggior rilievo degli Stati Uniti d’America di disegnare una strategia coerente e di vasto respiro.

La conclusione non è tratta da qualche dispaccio della Casa Bianca o da analisi di parte ma è invece la sintesi che si trae dalla lettura dei libri e dei papers che numerosi di questi tempi affollano coast-to-coast gli scaffali delle librerie e il web.

Proprio sul finire del secondo mandato di G.W. Bush, nell’interrogarsi sull’eredità politica lasciata dal Presidente più osteggiato da Ronald Reagan in poi, si assiste nel paese a stelle e strisce ad una nuova primavera della letteratura geopolitica.

Guerra al terrorismo, azione preventiva, libertà di agire anche fuori degli organismi internazionali, ricerca di un quadro di alleanze a perimetro variabile, esportazione della democrazia.

Su questi postulati all’indomani dell’11 settembre gli USA dissero al mondo:

Ogni nazione, in ogni regione, ha ora una decisione da prendere. Siete con noi, oppure siete con i terroristi.”

A distanza di qualche anno, secondo il think tank Brooking Institution per bocca di Philip Gordon, il postulato relativo alla “Guerra al Terrorismo” può essere giudicato un vero fallimento e ciò perché esso ha raccolto insieme minacce troppo differenti che traggono linfa vitale da scenari geopolitici profondamente distanti. L’estremismo islamico a parere di Gordon è storicamente diviso tra sciiti e sunniti, la Dottrina Bush ha ottenuto uno svantaggio strategico operando in favore di un sodalizio dei movimenti radicali in chiave anti-occidentale.

Proprio in questi giorni Frederick W. Kagan pubblica sul sito dell’American Enterprise Institute “Iraq the way Ahead, phase IV report”.

Lo stratega, autore del “Surge” traccia una fotografia della situazione della sicurezza in Iraq individuando le fondamenta del conflitto etno-settario da minare per ottenere una pace solida e duratura non tanto nella faida tra sunniti e sciiti quanto nella determinazione di piccoli e violenti gruppi sciiti di operare nella zona di Baghdad una pulizia etnica ai danni dei sunniti e ciò per vendicarsi delle angherie sotto Saddam; disegna Kagan la mappa di Al-Qaeda in Iraq e la sua reazione all’attacco americano partito dopo il “Surge”, lo stato dei rapporti con la resistenza sunnita e sciita, fiancheggiatori dei terroristi inclusi; disegna i progressi nel contrastare il terrorismo partendo dai paradisi sicuri dei nemici e dalle strade di transito da essi occupate sul finire del 2006 sino alla loro riduzione a macchie di leopardo isolate accerchiate dalla morsa delle forze della coalizione e da un esercito iracheno in progresso; disegna i prossimi passi sulla strada politica per la riconciliazione nazionale intrapresa, che debbono necessariamente portare al rafforzamento del Governo centrale; ma soprattutto disegna piani e prospettive per il 2008 che hanno come unico obiettivo il progressivo disimpegno che per Kagan può ragionevolmente tradursi nella riduzione della presenza militare in Iraq da tredici a dieci brigate entro Dicembre del 2008.

E’ il piano che in questi giorni, il Generale David H. Petraeus, a Capitol Hill chiede di rimandare, prevedendo esso già da luglio la riduzione a livelli pre-surge delle unità presenti in Iraq.

Ma l’attenzione dei policymakers è già rivolta al domani. E non solo a quello iracheno.

Del resto lo stesso Obama ha promesso di “usare la forza, unilateralmente se necessario, per proteggere il popolo americano” da minacce imminenti: evidentemente l’opzione guerra preventiva non è più considerata solo una vertigine neoconservatrice. Ecco il paradigma della “Guerra Preventiva” mantiene la sua attualità.

Così in un recente dibattito presso il Council of foreign relations si iniziano a tirare le somme dell’esperienza di questi anni incrociandosi le opinioni di Craig Cohen responsabile del progetto “Ricostruzione post-conflitto” e del Col. Garland H. Williams, autore di “Engineering Peace: The Military role in Post-Conflict Reconstruction”.

Nel dibattito si tratta su a chi debba spettare la leadership sul teatro di guerra, nel momento post-conflitto.

Il documento conclusivo del dibattito presso il Council on foreign relations arriva sorprendentemente a preferire una leadership civile che diriga quella militare poiché si ritiene fondamentale che tutti gli attori chiave siano coinvolti nella programmazione della ricostruzione post-conflitto, operatori militari e non. Dopo il conflitto infatti si deve immediatamente passare al piano per la ricostruzione e il Governo deve essere in grado di determinare quanto risulta necessario per la ricostruzione. Le organizzazioni non governative coinvolte in assistenza umanitaria devono trovarsi al di fuori della pianificazione della ricostruzione; tuttavia, il Governo deve coordinarsi anche con loro per evitare inutili duplicazioni di sforzi e risorse. Tale sforzo di programmazione deve essere guidato da leader civili al fine di ottenere la giusta sincronizzazione di tutte le parti.

Il controverso capitolo nella Dottrina Bush della “democracy building” è invece oggetto di un interessante libro di Tamara Cofman Wittes, “Freedom’s Un steady March”, pagg. 176, Brooking Istitution Press, Aprile 2008.

Il primo capitolo si apre sostenendo come “il tentativo di spingere il Medio Oriente davanti a uno stile governativo americano è stato, dopo tutto, uno dei marchi di fabbrica dell’amministrazione Bush, e i risultati hanno discreditato il progetto come pochi avrebbero immaginato.”.

Il libro esamina impietosamente il fallimento dell’amministrazione Bush nel far avanzare la libertà in Medio Oriente e delinea una strategia migliore per il futuro degli sforzi per promuovere la democrazia. La Wittes sostiene che solamente lo sviluppo di una politica più liberale e democratica nel mondo arabo renderà sicuri gli obiettivi a lungo termine degli USA e che l’America deve continuare a provare più pragmaticamente a promuovere i progressi in questa direzione.

In pratica secondo la Wittes il paradigma della promozione della democrazia nel mondo resta valido, ma sono stati i mezzi adottati ad essere sbagliati.

Critiche, distinguo e precisazioni a parte, con buona pace dei democratici di tutto il mondo, la Dottrina Bush comincia a ritagliarsi un destino politico proprio, separato da quello di colui da cui prende il nome, e sebbene essa sarà probabilmente soggetta a variazioni, ad aggiustamenti, ad attualizzazioni, quello che è certo è che resterà ancora a lungo nel repertorio diplomatico americano.

martedì 15 aprile 2008

Joy to the world all you boys and girls


E' un Roark bucolico e vagamente (nel senso leopardiano del termine) ebbro di una gioia primitiva che scrive.

In una sola notte scompare il social-comunismo dal panorama parlamentare italiano, si accende la speranza di una riforma istituzionale seria che consegni ad un paese prostrato istituzioni prestigiose e credibili, la speranza di un Governo che dalle prime battute a caldo del Premier pare volersi accingere a lavorare con volontà "tatcheriana", di un cammino verso il bipartitismo che pare inarrestabile, come la speranza di un cambiamento radicale - questa volta senza se e senza ma - che da anni il paese e il movimento politico culturale liberal-conservatore nato nel '94 aspettano.

Abbracci virtuali a parte, da domani, anzi da Maggio in poi, questo movimento avrà una responsabilità storica quanto il risultato degasperiano che il PDL e il suo Presidente ci hanno regalato: vigilare che le riforme radicali per il compimento di una Repubblica autenticamente democratica e capitalista arrivino in porto e cambino questo cazzo di Paese, restituendolo a quello che è il suo ruolo nel progresso culturale, economico e civile occidentale.

Poi ci sarà (almeno per il Presidente) la storia.

Chi lo sa? Certo a quel punto dovremo aspettarci cose come il passaggio all'ordine del giorno del riconosciuto status di padre nobile della Repubblica al Presidente e forse proprio per mano democratica - con le annesse e connesse interminabili trasmissioni a tarda notte su Rai3 che ci spiegheranno che loro erano sempre stati con il Presidente e ne avevano compreso da subito la volontà riformatrice (Mixer, Report, Primo Piano, la Dandini, ecc. ecc.) ma noi rozzo popolino per qualche oscuro e dietrologico motivo ne complicammo il cammino - magari si discuteranno migliaia di mozioni per costruire monumenti, attribuire nomi a ponti oppure semplicemente cambiare nomi a strade.

Ecco potremmo succedere che prima o poi noi si assista ad una cosa straordinaria, al cambiamento del nome di strade. Alla giustapposizione di enormi biscioni in mezzo alle aiuole dei vari viali dell'Unione Sovietica che ancora costellano la toponomastica italiana. Statue del Gabibbo davanti alle varie confederazioni sindacali.

Ma un Roark profetico e commosso (come Sandro Bondi) vede già il futuro.

Le vie che in tutta Italia sono oggi intitolate a Palmiro Togliatti venire attribuite a Silvio Berlusconi.

Game Over